Gioia e ansia in Libano dopo il cessate il fuoco. «Non è mai stata la nostra guerra»
Colonne di auto in festa fanno lo slalom tra le macerie dei palazzi in rovina per le vie di Beirut; uomini e donne tornano ad affollare le strade, abbracciandosi e sventolando bandiere del Libano; code interminabili di veicoli si riversano sulle strade che portano verso il sud e l’est del paese. Si tratta dei profughi, che fanno ritorno alle case che hanno abbandonato mesi fa, allo scoppio della guerra con Israele.
«Mercoledì per la prima volta da tanto tempo ci siamo svegliati tranquilli, senza bombe», dichiara a Tempi monsignor Jules Boutros, vescovo alla guida della Chiesa patriarcale di Antiochia dei Siri. «Un po’ di ansia però rimane: quanto durerà?».
Ieri Israele ha denunciato la violazione del cessate il fuoco da parte di Hezbollah, rilevando «movimenti in un sito che contiene missili». Per questo ha effettuato diversi raid in villaggi a sud e nord del fiume Litani.
«Le nostre case sono distrutte»
Il cessate il fuoco mediato dagli Usa tra Hezbollah e Israele, entrato in vigore alle 4 del mattino del 27 novembre, ha portato «gioia e speranza nel cuore di tutti». Anche se l’esercito non ha ancora dato il permesso agli 1,2 milioni di sfollati di rientrare nelle proprie case nella parte meridionale e orientale del paese, moltissimi libanesi, soprattutto sciiti, non hanno voluto aspettare.
«La voglia di tornare a casa è tanta», commenta a Tempi monsignor Boutros. «Il problema è che in molti casi non ci sono più case alle quali tornare. Sono state distrutte nei bombardamenti, ma la gente vuole innanzitutto andare a vedere che cosa è rimasto in piedi».
Al Libano servono 2 miliardi di dollari
I raid condotti da Israele durante l’Operazione Frecce del Nord hanno reso inagibili più di 100 mila abitazioni e per ricostruirle serviranno oltre due miliardi di dollari. «Il paese sta attraversando una profonda crisi economica, non possiamo ricostruire da soli», spiega a Tempi padre Michel Abboud, presidente di Caritas Libano. «Speriamo negli aiuti internazionali, come nel 2006, ma nessuno ci ha ancora promesso niente».
Ricevere aiuto è fondamentale, ma non qualsiasi aiuto è gradito. «Chi può contare sul sostegno economico di figli e parenti all’estero, può farcela. Gli altri non hanno questa possibilità», prosegue monsignor Boutros. «L’Iran ha offerto dei finanziamenti al presidente del Parlamento, Nabih Berri, ma lui ha rifiutato. Tagliare il legame finanziario e politico con l’Iran è una priorità per il Libano: ci ha creato immensi problemi».
«Hezbollah deve deporre le armi»
La speranza della stragrande maggioranza dei libanesi è che il cessate il fuoco porti anche a una rivoluzione politica nel paese dei cedri, paralizzato da uno stallo istituzionale che dura da due anni, senza presidente e con un primo ministro ad interim. «La speranza», continua il prelato, «è che Hezbollah segua l’esempio delle Forze libanesi, che hanno deposto le armi dopo la guerra, diventando un partito politico. Non sarà facile, ma è l’unica strada che porta alla pace».
Infatti, ricorda ancora la guida della Chiesa patriarcale di Antiochia dei Siri, «la maggioranza dei libanesi non ha cercato questa guerra con Israele: erano pochi quelli che la volevano».
«Questa non è la guerra del Libano»
Nessuno in Libano dimentica che sono stati i terroristi di Hezbollah a bersagliare con missili e razzi lo Stato ebraico in solidarietà con Hamas a partire dall’8 ottobre 2023, scatenando la reazione furibonda di Israele. Ai giovani in motocicletta che mercoledì alzavano le dita in segno di vittoria e agitavano cartelli inneggianti ad Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah ucciso da Israele il 27 settembre, ha risposto bene la prima pagina de L’Orient-Le Jour. In prima pagina, sopra all’immagine di un palazzo ridotto a un cumulo di macerie, il titolo: «E la chiamate “vittoria”?».
Il sollievo generale per la fine della guerra è comunque segno di un desiderio diffuso di pace e unità. «La gente ha paura di tornare al punto zero», rimarca padre Abboud. «Non vogliamo che la guerra ricominci: questa non è mai stata la nostra guerra».
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