Fatto vs Repubblica: chi vincerà la guerra dei migliori?

Di Livia Orlandi
12 Giugno 2012
Crociate morali e liste civiche. Repubblica tenta la scalata al Pd. Peccato che sulla scena sia spuntato un altro giornale-partito. Che lancia crociate morali, adunate, liste civiche. Un attimo prima di Scalfari & C.

«Se in Italia c’è un potere forte che non patisce l’usura degli anni di crisi, questo è il Gruppo Espresso-Repubblica». Scrive così oggi sul Foglio Alessandro Giuli, descrivendo la parabola del “giornale-partito” che domenica prossima a Bologna si predispone «allo sbarco semipolitico» e che è riuscito a destabilizzare il premier Monti e il suo governo tecnico più di quanto il Corriere della Sera non sia riuscito a difenderlo. Ma il tribunale di Repubblica non è solo, la discesa in piazza a Bologna non è una novità e anche l’idea di lanciare liste civiche è riciclata. Da chi? Dall’altro megafono della chiesa dei migliori: il Fatto quotidiano. Chi vincerà la guerra? Anticipiamo l’articolo che uscirà sul numero 24/2012 di Tempi, in edicola da giovedì.

C’è un fatto nuovo nella guerra dei migliori. E le famose liste civiche della famosa società civile con cui Repubblica vorrebbe lanciare la famosa Opa sul Partito democratico non ne sono che un’ultima appendice. Ora tirano in ballo pure il riservatissimo Roberto Saviano, il quale ha dovuto smentire qualunque attrazione per la politica, rivendicando il suo diritto a occuparsene senza candidarsi. «Voglio solo scrivere», dice: e in attesa di un nuovo libro la contesa dei migliori agita gli spazi politici lasciati da un governo tecnico che rischia seriamente di diventare balneare. Accade, insomma, che quella lunga guerra non abbia più un unico giornale a definire il campo di battaglia. C’è un Fatto nuovo, appunto.

Tutto comincia, più o meno, nel gennaio del 1976, quando Eugenio Scalfari e il suo manipolo di pionieri fondano Repubblica. Lo fanno partendo da un presupposto semplice e in anticipo di decenni sulla stampa schierata, sulla carta che si fa partito che è nata appunto allora ed è arrivata a Ruby e Montecarlo, a Grillo e – appunto – alle liste civiche. «Questo giornale è un poco diverso dagli altri», scriveva allora l’Io fondatore. «È un giornale d’informazione il quale, anziché ostentare una illusoria neutralità politica, dichiara esplicitamente d’aver fatto una scelta di campo. È fatto da uomini che appartengono al vasto arco della sinistra italiana, consapevoli d’esercitare un mestiere, quello appunto del giornalista, fondato al tempo stesso su un massimo d’impegno civile e su un massimo di professionalità e di indipendenza. Finora si sono fatti dei giornali omnibus, buoni cioè per tutti i lettori. Noi, invece, vogliamo ritagliare dalla massa del pubblico una fetta precisa: la classe dirigente, prendendo come riferimento non il reddito ma i ruoli esercitati nella società». Ecco, da allora quell’arco si è teso ma è sempre stato l’arco di Repubblica: ci fosse da fare o da smontare governi e leader o da fornire un punto di luce in una nazione corrotta. Da picchiare su Craxi e benedire Berlinguer, da lanciare Veltroni e poi addirittura Fini, da prendere e distribuire tessere numero uno, due e tre. Repubblica è, da allora, il vero megafono della chiesa dei migliori, che ti scelgono per sapere cosa pensare e in che modo farlo. Una corazzata, che ha saputo fondere gli interessi morali e materiali del suo editore col miglior milieu dell’impegno sociale e civile. Perfido, il socialista Ugo Intini chiamava Repubblica «partito irresponsabile dell’informazione». E quelle parole tornano in mente oggi quando il “giovane” dalemiano Matteo Orfini sibila che se il Pd ha da essere scalabile perché lo dicono i giornali, allora «anche Repubblica deve diventare scalabile, visto che è diretta da sedici anni dallo stesso uomo».

Sermoni vs manette
Il Fatto nuovo è, appunto, il Fatto. Il giornale che quando lo sfogli fa tin-tin, quello che fa scintillare le manette in prima pagina, come a dire che l’unica riforma è la galera, prima di essere un fastidio editoriale è per Repubblica un contendente nella gara dei migliori. Per questo, malgrado non si tratti di potenze comparabili in termini di copie vendute, il quotidiano di Padellaro e prossimo orfano di Telese è un emulo incazzato e pure più agile e vivace di quello fondato da Scalfari. E allora il mega raduno estivo di Repubblica (14-17 giugno) non può che sembrare un’esibizione di muscoli. Uno spiegamento di forze mostruoso: i big del giornale, e poi Umberto Eco, Ligabue, Abbado, Monti, Roubini, Zagrebelsky, Mancuso. Tutti e tanti altri, a Bologna. Niente Saviano però: lui scrive. Ma se in fondo Mauro&Scalfari scendono in piazza a Bologna è anche per ribadire che quell’area è la loro, e la platea dei migliori è lì che deve guardare.

Sarà un caso, ma di iniziative del genere la comunità del Fatto ne fa già da un po’, pienamente coerente con la sua storia che ha visto nascere prima il popolo dei lettori del giornale, con le famose migliaia di abbonamenti sottoscritti su internet prima che il prodotto fosse in edicola. Da allora il Fatto va in Sardegna dai cassintegrati, gira l’Italia dei terremotati, raduna i cervelli in fuga a Londra, incarna la versione postmoderna del Gaber del Potere dei più buoni. Per dire, ha appena organizzato una tre giorni a Taneto di Gattatico (Re) per le vittime del sisma, e il tutto tenendo insieme Montanelli e l’Arci. E se Repubblica indica da quasi 40 anni chi siano i migliori, il Fatto ha indurito il taglio del sasso con cui colpire gli altri, i peggiori, i ladri, i corrotti. Dove Repubblica dirige e bacchetta, il Fatto colpisce e non perdona. Così, se l’una ha Saviano come profeta, l’altro ha Beppe Grillo. Il pensiero dominante, giusto e intoccabile, e il vaffanculo, sodo e popolare. Il bello è che ci sono vaste e inevitabili aree di sovrapposizione, e a tratti pare sia Repubblica a inseguire. Era già successo con le lenzuola di Berlusconi. Alla Noemi scovata dai repubblicones, Travaglio & C avevano risposto con lo scandalo Ruby. Lo scandalo era poi diventato il randello di Mauro e delle famose dieci domande, in un crescendo dove ogni tanto facevi fatica a distinguere chi alzasse più in alto la forca morale. Non è un caso se Scalfari e Travaglio sono finiti a prendersi a sberle a gennaio di quest’anno (la perifrasi del Fondatore «editorialisti qualunquisti e demagoghi» era dedicata a Marco).

Mobilitazioni parallele
Pure sulla faccenda delle liste civiche, che sono in realtà un eterno ritorno (Scalfari stesso nel 1991 invocava una Lega nazionale che raccogliesse il popolo anti-Casta dei referendum), è partito prima Padellaro. Anzi, il marchese Flores D’Arcais, che dopo le recenti amministrative ha fatto una botta di conti, individuato un incredibile 96 per cento di non rappresentati e sul Fatto ha scritto così: «Una o più liste di società civile, le cui forme di sinergia con i partiti del centrosinistra dipenderanno dalla legge elettorale. E candidati della società civile alle primarie (primarie vere, cioè ad armi pari) se si voterà con l’attuale “porcata”. Dobbiamo lavorarci da subito; alle liste, all’individuazione del candidato, al programma (eventualmente in sequenza inversa)». Siamo all’oggi. Alla guerra dei migliori, una contesa che passa pure dalle feste estive e dai concerti. E torna a Giorgio Gaber e al suo Potere dei più buoni, anche quando fanno la faccia dei cattivi: «È il potere dei più buoni/ è il potere dei più buoni/ costruito sulle tragedie e sulle frustrazioni/ è il potere dei più buoni/ che un domani può venir buono per le elezioni».

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