Le “fabbriche dei bambini” in Nigeria. Ecco fino dove arriva l’utero in affitto

Di Benedetta Frigerio
13 Marzo 2016
«Non è fantascienza, ma un nuovo tipo di sfruttamento delle donne africane». Intervista a Emmanuele Di Leo, presidente di Steadfast Onlus
FILE - In this Saturday May 2, 2015 file photo, women and children rescued by Nigeria soldiers from Islamist extremists at Sambisa forest arrive at a camp for displaced people in Yola, Nigeria. Nigeria's military says troops freed 338 captives, mainly children and women, in raids on Boko Haram camps in northeast Nigeria. Nigeria's Defense Headquarters says 30 militants of the Islamic extremist group were killed io Tuesday Oct. 27, 2015 in attacks on the fringes of the Sambisa Forest. (AP Photo/Sunday Alamba, File)

Vengono reclutate, ingannate o sfruttate per essere violentate, messe incinta, chiuse dentro delle “fabbriche di bambini” e, alla fine, costrette a vendere i loro figli a coppie sterili o dello stesso sesso, per una cifra di circa 6 mila e 400 dollari. «Non è fantascienza, ma un nuovo tipo di sfruttamento delle donne nigeriane di cui hanno parlato in anni recenti la Bbc il Guardian, l’Huffington post e Repubblica». A raccontare il fenomeno a tempi.it è Emmanuele Di Leo, fondatore e presidente di Steadfast Onlus. «Con Steadfast – ci spiega – facciamo cooperazione internazionale da tre anni contro la tratta della prostituzione, ma di queste “fabbriche di bambini”, non ne parla nessuno».

Lei di cosa è testimone?
Bisogna dire innanzitutto che in Africa la procreazione è una ragione di vita e chi ha problemi di fertilità rischia l’emarginazione sociale. La criminalità, alimentata dall’estero ma anche dalle coppie nigeriane ricche e infertili che vogliono evitare l’esclusione sociale, ha dato vita nel 2001 a questo business. Di solito c’è una “Maman”, una donna legata ai trafficanti, che va nei villaggi poveri e convince le altre a seguirla, spesso con false promesse. In certi casi le ragazze vengono anche rapite. Il business si è poi evoluto con un “boom” nel 2008 e con venti “fabbriche” scoperte e chiuse dalla polizia, come documentato dall’articolo scientifico di Makinde. Nell’articolo, come in un reportage della Bbc, si spiega l’evoluzione di queste fabbriche e la modalità con cui le vittime vengono messe incinta. Accade persino che le acquirenti siano convinte di aspettare un figlio da finti medici i quali, in accordo con i mariti, somministrano loro pillole in grado di gonfiarne il ventre per simulare la gravidanza. Quando poi tornano, dopo nove mesi, vengono addormentate e al risveglio gli si dice che hanno partorito.

Oltre che alle coppie africane a chi sono venduti i bambini?
Il più delle volte sono inseriti nel mercato delle adozioni, che sta prendendo una linea decisamente più di business che umanitaria, o destinati a un mercato internazionale che vede come acquirenti sia coppie infertili sia persone dello stesso sesso. Altra triste destinazione è quella dei rituali tribali.

Ci sono legami fra questo mercato e quello della prostituzione?
Il terzo Rapporto mondiale sulle tratte sessuali, redatto dalla fondazione Scelles, dice che in Nigeria le vittime della prostituzione sono 6oo mila all’anno, di queste l’11 per cento vengono sfruttate in Europa e 20 mila in Italia. Solitamente la “maman” va nei villaggi e convince le donne a seguirle, promettendo loro che all’estero c’è un lavoro redditizio che le attende. Una volta che la donna arriva in Italia, occorre trovarle un alloggio e un marciapiede. Per i trafficanti nigeriani queste operazioni sono un investimento, ma è molto più facile convincere le donne povere o quelle incinte e non sposate a vendere i loro bambini o ad affittare il loro utero.

Quali sono le azioni messe in campo per combattere questa nuova schiavitù?
Ci siamo uniti ad altre ong che combattono la prostituzione e questa nuova forma di sfruttamento che è l’utero in affitto. A fine giugno ci incontreremo in un simposio a porte chiuse, perché davanti a un fenomeno così grave e dilagante combattere da soli rischia di essere inutile.

@frigeriobenedet

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4 commenti

  1. Sebastiano

    Galasi probabilmente sorride anche pensando a quante donne si sono potute pagare una casa o gli studi universitari del figlio affittando non l’utero ma quell’altra cosa.
    Ne è talmente contento che sorge il sospetto che abbia partecipato agli utili…

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