
Altro che fine della guerra, l’Etiopia è sempre più instabile

Quando lunedì il Financial Times ha pubblicato il suo speranzoso articolo sulla fine della guerra fra il governo federale e i ribelli tigrini in Etiopia (After the war ends, can Ethiopia’s economic miracle get back on track?), a Londra non erano evidentemente arrivate le notizie del massacro di Tole Kebele, 400 km a ovest di Addis Abeba, dove nella giornata di sabato 18 giugno sarebbero stati uccisi fra i 230 e i 300 civili di etnia amhara. Autorità e ribelli oromo si rimpallano le accuse: il governo regionale dell’Oromia e la Commissione etiopica per i diritti umani attribuiscono l’eccidio all’Oromo Liberation Army (Ola), il braccio armato dell’Oromo Liberation Front – Shene (Olf-Shene), staccatosi dallo storico Oromo Liberation Front quando questo si è riconciliato col governo di Addis Abeba nel 2018.
Il portavoce dell’Ola, Odaa Tarbii, ha ufficialmente smentito che i ribelli siano stati gli autori del massacro di civili, ha accusato della strage le forze governative e in particolare la milizia tribale oromo Gaachana Sirna, che fiancheggia le truppe federali, e infine ha chiesto un’inchiesta internazionale sull’accaduto.
L’instabilità dell’Etiopia non è solo a nord
Comunque siano andate le cose, il senso della cattiva notizia è che l’instabilità dell’Etiopia non è confinata alla sua regione settentrionale, dove la guerra civile fra il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Fplt) e l’esercito federale fiancheggiato da milizie tribali e truppe eritree, scoppiata nel novembre 2020, conosce una precaria tregua che va avanti dal marzo di quest’anno.
Le aree di sanguinosa crisi all’interno del secondo più popoloso paese dell’Africa (114 milioni di abitanti e una superficie pari a quasi quattro volte quella dell’Italia) sono numerose, e sono andate crescendo negli ultimi anni dopo che il primo ministro Abiy Ahmed Ali ha inaugurato una politica centralistica, attraverso la creazione del Partito della Prosperità che ha unificato in un’unica formazione i quattro partiti della coalizione Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiopico (Fdrpe). Quest’ultimo, egemonizzato dall’Fplt, aveva governato all’insegna del federalismo multinazionale dopo la fine del regime comunista del colonnello Menghistu nel 1991.
La lotta in Oromia e il primo ministro Abiy
Paradossalmente la regione dove – a parte il Tigray – la lotta armata è più sanguinosa è quell’Oromia di cui lo stesso Abiy è originario. Benché oromo, Abiy è favorevole a un forte governo centrale insensibile alle rivendicazioni a sfondo etnico, mentre fra gli oromo tradizionalmente si distinguono i favorevoli all’indipendenza, riuniti nell’Olf, e i favorevoli all’autonomia entro un’Etiopia federale, riuniti nel Oromo democratic party (Odp), affiliato all’Fdrpe; di esso faceva parte, fino alla creazione del Partito della Prosperità, lo stesso Abiy.
Che prima di arrivare alla fusione ha emarginato o espulso dal partito tutti gli elementi che gli facevano ombra, a cominciare dal padrino politico che lo ha aiutato a diventare il primo leader etiopico non tigrino dell’era post-Menghistu: Lemma Megersa, presidente dell’Odp che lasciò la carica di leader del partito ad Abiy, condizione perché potesse essere nominato primo ministro, e presidente della regione dell’Oromia prima che Abiy lo deponesse senza tante cerimonie nell’aprile 2019.
Nuovi attacchi e attentati in Etiopia
Queste vicende hanno portato a un riavvicinamento politico (non è dimostrabile una collaborazione sul piano militare) fra l’Olf-Shene e la corrente dell’Odp contraria alla politica di Abiy. Inoltre l’Ola ha stretto un’alleanza coi tigrini del Fplt e col Gambella Liberation Front, insieme al quale proprio nei giorni scorsi (14 giugno) ha condotto un attacco contro Gambella, la città che dà il nome alla regione.
Per tutto maggio e giugno le forze dell’Ola-Shene si sono scontrate con l’esercito (Ethiopia National Defense Force, Endf) e con milizie amhara e oromo filo-governative nelle zone di Arsi ovest, Guji, Hararghe ovest, Shewa nord e Shewa ovest; Tole Kebele si trova nel distretto di Gimbi, Wollega ovest. Nello stato regionale di Benishangul-Gumuz, dove sorge la Grande diga del rinascimento etiopico al centro di una controversia fra Etiopia, Egitto e Sudan, guerriglieri gumuz dal 2019 attaccano gli amhara e gli oromo; si sono succeduti vari processi di pacificazione, e nel maggio scorso fra i 500 e i 1.000 combattenti (a seconda delle fonti) hanno deposto le armi; ma il 7 giugno un nuovo attacco del Gumuz People’s Democratic Movement ha causato 19 morti nell’area di Kamashi.
Le speranze di pace vacillano
L’Oromia è la più grande e la più popolosa delle regioni dell’Etiopia: ha la stessa superficie dell’Italia e una popolazione di 35 milioni di abitanti, per l’88 per cento oromo. Gli amhara sono solo il 7 per cento, in gran parte immigrati negli ultimi cinquant’anni. Sono da sempre vittime di attacchi xenofobi di varia e mai chiarita provenienza: come nel caso di Tole Kebele, i vari gruppi armati si rimbalzano le accuse dei ricorrenti massacri. Un’indagine giornalistica pubblicata dal periodico online Addis Standard nel febbraio di quest’anno ha rivelato la difficile situazione di centinaia di civili della comunità amhara provenienti da varie parti della zona di Wollega fuggiti a causa di attacchi subiti, che hanno trovato rifugio ad Addis Abeba e nella zona di Arsi, nello stato regionale di Oromia.
A far vacillare le speranze di pace e stabilità nel paese sono infine gli scontri alla frontiera settentrionale fra truppe dell’esercito eritreo e combattenti dell’Fplt. Ci sarebbero state due offensive eritree, il 4 maggio nelle zone di Badme e Rama e il 24 maggio nella zona di Adi Awalla. Il 30 maggio le autorità tigrine hanno annunciato di avere messo fuori combattimento 300 soldati eritrei. L’Eritrea ha fiancheggiato il governo di Addis Abeba nel suo conflitto coi tigrini sin dall’inizio, nel novembre 2020.
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