La preghiera del mattino
Anche un pezzo dell’establishment non ne può più della sterile arroganza di Macron
Su Open si scrive: «L’amministrazione Biden ha autorizzato l’invio in Ucraina del settimo pacchetto di armi, per un totale di 800 milioni di dollari, per la difesa di Kiev dagli attacchi russi. È quanto comunicato oggi dal presidente statunitense Joe Biden al presidente ucraino Volodymyr Zelensky nel corso di una telefonata durata un’ora, e confermata in una nota ufficiale dalla Casa Bianca. La telefonata ha fatto seguito all’appello del presidente ucraino in cui ha elencato le armi richieste da Kiev ai paesi occidentali per combattere contro le truppe russe. Il presidente Biden, durante il colloquio telefonico con Zelensky, ha assicurato che “mentre la Russia si prepara a intensificare il suo attacco nella regione del Donbass, gli Stati Uniti continueranno a fornire all’Ucraina le capacità per difendersi”».
In Ucraina prosegue la guerra per il controllo del Donbass e in particolare della città di Mariupol. Gli americani s’impegnano a sostenere ancor di più Kiev.
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Sul Sussidiario Carlo Jean scrive: «Biden è molto attento al fatto che non ci sia una escalation, tanto che ad esempio gli Stati Uniti non hanno mai fornito all’Ucraina i missili anti-nave».
Il generale Jean non manca di sottolineare come l’impegno americano sia consapevole di un rischio “terza guerra mondiale” e quindi alla fine autolimiti il suo intervento.
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Su Affaritaliani si scrive: «Il cancelliere tedesco Olaf Scholz, per il momento, non è intenzionato a recarsi a Kiev. L’ha detto oggi in un’intervista alla radio Rbb24, nella quale ha espresso “irritazione” per la cancellazione da parte ucraina di una visita del presidente federale tedesco Frank-Walter Steinmeier».
Non si può mai e in nessun caso criticare Volodymyr Zelensky, leader di una nazione aggredita che deve motivare e guidare il suo popolo alla resistenza. Però i suoi consiglieri americani dovrebbero spiegargli che per tenere insieme lo schieramento (innanzi tutto occidentale) sorto per l’indignazione contro l’aggressione russa all’Ucraina, oltre alle emozioni serve anche un po’ di politica.
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Su Fanpage si scrive: «Venerdì prossimo, dopo due anni di stop forzato a causa della pandemia, torna la celebrazione della Via Crucis nelle strade di Roma. Come ha fatto sapere la Santa Sede, quest’anno nella tredicesima stazione saranno presenti una famiglia russa e una ucraina. La prima è quella di cui fa parte Albina, una studentessa del corso di laurea in Infermieristica dell’università Campus Bio-Medico, mentre la seconda è quella di Irina, un’infermiera ucraina che lavora nel centro di cure palliative “Insieme alla cura”, della Fondazione Policlinico Universitario dello stesso ateneo. La decisione, però, ha scatenato la reazione dell’ambasciata ucraina nello Stato del Vaticano».
L’idea che si debba fare una guerra non al governo ma al popolo russo (idea dalla quale derivano persino critiche a papa Francesco) ha qualche seguace in Occidente, ma probabilmente non porta lontano.
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Su Huffington Post Italia Luca Bianco intervistando Lucio Gobbi, economista di Trento, scrive: «Da questo punto di vista, con un timing decisamente poco casuale, non è solo il Cremlino a muoversi. Sì, perché a metà marzo i cinesi non si sono fatti attendere, annusando nell’aria proprio quello che Gobbi ci ha spiegato poco fa: con le sanzioni alle riserve di Mosca, il dollaro rischia di perdere la sua credibilità internazionale. Pechino ha quindi avviato trattative con l’Arabia Saudita per utilizzare direttamente lo yuan nell’acquisto di petrolio. Una mossa rivoluzionaria, dopo decenni di dominio dei petrodollari. Già, perché stiamo parlando rispettivamente della più grande potenza importatrice e del più importante esportatore. “Una tale ipotesi, se realtà, potrebbe portare alla creazione di un polo alternativo in grado di erodere il dominio Usa. A quel punto, infatti, non solo la Repubblica Popolare ma anche altri paesi vicini, Russia in primis, potrebbero fare riferimento allo yuan nel commercio del petrolio».
La guerra in Ucraina apre una fase di movimento in tutti gli scenari internazionali con possibili sorprese di tutti i tipi.
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Su Formiche Luigi Paganetto scrive: «È chiaro infatti che, comunque si riconfigurino scambi commerciali e finanziari internazionali, i cambiamenti che già sono in atto richiedono scelte che ci consentano una collocazione convincente in un mondo in cui, per usare le parole di Larry Fink, “la globalizzazione come la conosciamo da tre decenni è finita”».
L’idea di un processo di globalizzazione senza contraddizioni che sistemava tutte le contraddizioni del pianeta non convince neppure più i protagonisti della finanza americana come Fink.
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Su First online intervistando Alessandro Spada, presidente di Assolombarda, si scrive: «Un altro duro colpo per le imprese italiane. I costi dell’energia, delle materie prime, le difficoltà nell’approvvigionamento, nelle esportazioni e nei pagamenti sono gli effetti ulteriormente aggravati dalla guerra in Ucraina che mettono a rischio la produzione italiana. Se per il momento solo un terzo è in grado di mantenere l’attività invariata per tempi prolungati, per i due terzi la gestione delle difficoltà ha un limite temporale: infatti, un’impresa su quattro (il 27 per cento) presuppone di poter continuare a produrre senza interruzioni solo nel breve termine, ossia ancora per 1-3 mesi, e un ulteriore 32 per cento non oltre i 12 mesi. Lo rileva uno studio preoccupante del Centro studi di Assolombarda su un campione di 463 imprese dei territori di Milano, Monza e Brianza, Lodi e Pavia, prevalentemente manifatturiere e con rapporti commerciali diretti con Russia-Ucraina-Bielorussia».
Intanto gli uomini dell’economia reale italiana avvertono quali sono i processi in corso che non possono essere anestetizzati con formule retorico-propagandistiche.
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Su Huffington Post Italia Lorenzo Santucci scrive: «Nella segretezza più assoluta, o quasi, sei velivoli militari da trasporto Y-20 dell’aeronautica militare cinese sono sbarcati nel fine settimana all’aeroporto Nikola Tesla di Belgrado. All’interno, un sofisticato sistema missilistico terra-aria HQ-22 che la Serbia aveva ordinato nel 2019 per destinarlo al suo esercito, il primo in Europa a ricevere questo tipo di armamento dalla Cina. La versione di esportazione viene chiamata FK-3 e si tratta di un sistema molto simile allo statunitense Patriot o al russo S-300, seppur con una gittata inferiore rispetto a quest’ultimo».
Mentre la Finlandia e la Svezia, giustamente allarmate dall’aggressività russa, entrano nella Nato, altri spostamenti politici avvengono in Europa, come segnala per esempio con questa citazione di un articolo di Santucci. In mancanza della ricerca di un ordine mondiale del tipo di quelli definiti con il Trattato di Vestfalia, il Congresso di Vienna o la Conferenza di Yalta, procederà quel “clash of civilizations”, scontro di civiltà, previsto da Samuel Huntingon all’inizio degli anni Novanta.
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Su Formiche Marcello Sorgi dice: «Secondo me è riduttivo pensare solo che il divario tra centro e periferie, che pure c’è, abbia determinato questo scenario. Nel caso francese, parlerei più dello Stato (incarnato dal presidente uscente Emmanuel Macron) e la formazione antisistema che ha i caratteri di Marine Le Pen. Negli anni del suo mandato all’Eliseo Macron ha cercato di interpretare il sentimento dello Stato. In parte questa volontà è tornata anche durante la campagna elettorale, nel momento in cui ha deciso di puntare sulla riforma delle pensioni. Tema di per sé molto spinoso».
Per passare a un altro scenario che potrebbe essere influenzato dalla guerra in Ucraina, è interessante tenere presente l’analisi di Sorgi che sostiene come in Francia ci sia un conflitto tra Stato e Antisistema, sostanzialmente rappresentato da uno scontro tra chi ha “paura” e cerca protezione nello Stato, e chi prova “rabbia” e cerca a tutti i costi di far saltare lo stato delle cose presenti. Tra “paura” e “rabbia” di solito, quando la situazione non è ancora disperata, non può che prevalere la “paura”. Si tratta di capire, però, se l’analisi di Sorgi corrisponde perfettamente alla realtà.
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Sulla Zuppa di Porro si scrive: «Non va scordato che proprio la candidata dei Republicains a un certo punto della sua campagna, ha lanciato l’idea di proporre come prossimo premier – se lei fosse salita all’Eliseo – Pierre de Villiers, generale, già capo di stato maggiore dell’esercito che si è dimesso nel 2017, nonché fratello di Philippe de Villiers, politico già gollista e storico della Vandea, punto di riferimento di quel cattolicesimo tradizionalista che aveva sostenuto la candidatura di François Fillon liquidato, secondo il suo successore alla testa dei gollisti Wauquiez, da uno scandalo montato da media, servizi e staff di Macron».
Sarà questa la carta che Vincent Bolloré regalerà, nella sua corsa finale, a Marine Le Pen? Un candidato alla premiership che rappresenti un esercito molto insoddisfatto dalla politica estera macroniana (sconfitta in aree decisive per Parigi come l’Africa subsahariana, la Libia e la Siria, presa a schiaffi dagli americani che hanno anche logorato i rapporti di Parigi con Roma e Berlino, e reso sterile ogni mossa francese per far ragionare Vladimir Putin). Se questa sarà la prossima mossa di Marine Le Pen potrebbe avere un effetto notevole, coinvolgendo una parte decisiva dell’establishment, offrendo un volto autorevole all’estero e quindi tranquillizzando quella parte di società francese che non sopporta la sterile arroganza macroniana ma che non vuole correre avventure.
Questa analisi presentata dalla Zuppa di Porro contiene senza dubbio qualche interpretazione azzardata, ma segnala un fatto: c’è un pezzo di establishment fondamentale nello Stato francese che è assolutamente insoddisfatto della politica dell’Eliseo. Questa insoddisfazione potrà esprimersi nel residuo di campagna per le presidenziali che si concluderà il 24 aprile? Va tenuto conto delle tante antiche caratteristiche del lepenismo francese (da un certo amore per la Vandea a un certo petainismo, fino al rapporto con i Pieds-Noirs) assai indigeste per il nucleo centrale dell’Armée française. Marine Le Pen riuscirà a convincere il pezzo di establishment di cui scriviamo di rappresentare una realtà del tutto modificata? Non è probabile, però non è del tutto impossibile.
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