Eluana Englaro e gli altri come lei. Cosa non capiscono i “fazisaviani” di casa nostra

Di Carlo Candiani
10 Febbraio 2012
Il 9 febbraio 2009 la ragazza di Lecco moriva in una clinica di Udine. Cosa ci ha insegnato quella vicenda? Intervista a Lucia Bellaspiga.

Era il 9 febbraio 2009 e dai televisori accesi, gli italiani, nell’ora di cena, seppero la notizia: Eluana Englaro era morta, pochi giorni dopo che suo padre l’aveva tolta alle suore di Lecco che l’avevano accudita per anni, per lasciarla morire in una asettica clinica di Udine.

Da due anni, le associazioni delle famiglie con parenti in stato vegetativo o con un grado minimo di coscienza hanno scelto proprio questa data per rimettere al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni la loro situazione. A tre anni da quel 9 febbraio, com’è cambiata la coscienza degli italiani, davanti a questi drammi? «La coscienza popolare e anche la comunità medica hanno avuto un grosso scossone nella vicenda di Eluana, e questo è l’unico aspetto positivo in questa tragedia di una morte atroce».
Ricorda tutti i passaggi storici, Lucia Bellaspiga, giornalista del quotidiano Avvenire, che seguì in quei giorni l’evolversi drammatico della vicenda. «A quei tempi la gente neanche sapeva cosa volesse dire essere in stato vegetativo. Ricordo che quando capitava qualche caso a personaggi famosi, e si diceva che fossero da anni in coma, ci si domandava come una tale situazione avesse potuto durare per anni; anche la comunità scientifica, cosa grave, degli stati vegetativi non sapeva nulla. Questa vicenda ha accelerato la ricerca scientifica, al punto che la comunità internazionale dei neurologi è arrivata a proporre di annullare la definizione stessa di stati vegetativi, per parlare invece di veglia a-relazionale, cioè malati svegli e coscienti che non riescono a relazionare con l’esterno, fino ad arrivare a scoprire che il quaranta per cento delle diagnosi di stato vegetativo sono sbagliate. Si tratta di malati in stato di minima coscienza, oppure in “locked in”, la sindrome del chiavistello: persone che sono coscienti in larga parte , ma incapaci di relazionarsi con il mondo esterno.

Progressi scientifici e medici che hanno squarciato un velo…
Purtroppo non è così per l’opinione pubblica a causa di falsi messaggeri: tutto il gruppo che gravita intorno a Beppino Englaro, i Radicali, l’Associazione Coscioni, i bioetici del gruppo di Maurizio Mori, la Consulta di Bioetica, per non parlare del duo televisivo Fazio-Saviano. Con un’aggravante.

Quale?
Questi gruppi sono quotidianamente invitati in licei, università, circoli culturali, dove, senza contraddittorio, insegnano la loro dottrina. In questo modo stanno crescendo generazioni di giovani, per i quali le vite dei disabili sono non vite, con il rischio di tornare alle ideologie del Novecento, quelle dove i disabili non erano considerati uomini degni di vivere. Hai voglia ad obiettare che Eluana non era attaccata ad alcuna macchina, che il suo corpo non era né straziato, né sofferente, né deforme!

Un sentimento diffuso è questo: lasciare che questi malati muoiano è opera di misericordia; l’egoismo affettivo dei vivi, renderebbe questi ultimi crudeli.
È come considerare questi malati già morti. Ma capisco perfettamente questo ragionamento: è un fraintendimento, dettato sicuramente da una buona fede, ma anche da una poca conoscenza dei fatti. L’eutanasia, cioè il pensare di poter dare una dolce morte, preferibile alla vita del disabile, anche se gravissimo, è una tentazione che non riguarda noi “vivi”, ma noi “sani”. Questa è una preoccupazione del sano, non del malato. Cito una statistica: 350 su 350 tra disabili gravi, ma anche malati che muovono solo le palpebre, hanno considerato non indegna la loro vita e non desiderano scambiarla con la morte. Pensate se “per misericordia” questi malati fossero fatti morire: ad Eluana è accaduto questo. Le priorità, quando una persona passa da sana a malata, cambiano. Quando siamo sani, chi di noi direbbe “in caso fossi nelle condizioni di Eluana, tenetemi lì diciassette anni”? Se mi dicessero che ho la Sla, magari, ci penserei anch’io a farla finita. Ma quando subentra realmente la malattia le prospettive cambiano: ho ben presente storie personali, nelle quali dopo una tentazione di suicidio assistito, ci si è accorti di come la priorità è quella di lottare per vivere. Da qualche tempo faccio incontri su questo argomento con Massimiliano Tresoldi, un ragazzo di Carugate, una cittadina brianzola, che è rimasto dieci anni in stato vegetativo, si è svegliato e ora è in carrozzella. È paralitico, parla malissimo, ma dice che è contento di essere vivo, adorato dai suoi genitori, dai suoi amici. Dice anche un’altra cosa, tremenda: nei dieci anni, in cui era immobile, sentiva tutto! Quindi non è assolutamente remoto pensare che Eluana, che era nelle stesse condizioni, sentisse tutto.

In quest’ultima esperienza, lei ha parlato di un malato, disabile grave, che ha intorno a sé una rete di volontari e una famiglia che lo accudisce. Il dramma che si aggiunge per molti, non è la solitudine?
Penso che la vera battaglia non dovrebbe essere per la morte: se leggiamo i giornali, se ascoltiamo i “fazisaviani”, sembra che il gravissimo problema degli italiani sia riuscire a morire. Qualcuno dovrebbe spiegare a questi intellettualoidi, se incontrassero queste famiglie, che il vero problema è il diritto a vivere e non a morire! Diritto a vivere con un’assistenza, non in solitudine, con dei fondi, con il fisioterapista che venga tutti i giorni, con il logopedista mandato dall’Asl, con i pannoloni gratutiti, con le sacche dell’alimentazione. Invece questa solitudine a cui sono sempre più condannate le famiglie e quindi i pazienti è veramente l’anticamera dell’eutanasia, perché si arriva per disperazione a chiedere di morire.

Serve un aiuto anche dalle istituzioni.
Sì. Dopo che i pazienti ricevono cure sempre più specialistiche, cosa accade, poi, nella quotidianità casalinga? Qui dovrebbe intervenire la politica, la “polis”, la politica del ben-essere. Purtroppo la filosofia e la cultura vanno in opposta direzione e vogliono convincerci che queste sono non-vite che è meglio spegnere. Perché, diciamo la verità, costa meno. L’assistenza a questi malati è, economicamente, onerosa. Oggi ci troviamo di fronte a padri e madri che perdono il lavoro perché devono stare 24 ore su 24 ad accudire il loro parente, in solitudine. Ma un cambio di marcia della politica non è utopia: basterebbe imparare dalla trama di volontariato e di aiuto concreto attorno alla situazione di Tresoldi, il ragazzo del quale accennavo poc’anzi. Sarà interessante leggere questa esperienza in un libro che uscirà a marzo, edito da Ancora.

A parte l’esempio di Giuliano Ferrara, questa battaglia per la vita è recintata nel mondo cattolico?
È vero che c’è una sensibilità più accentuata nel mondo religioso, ma non è esclusivo: qui si trattano diritti universali, umani, di concetti, prima di tutto, laici. Per il banalissimo concetto che al cittadino vanno concessi tutti i diritti, ancora di più se è in una condizione di fragilità. Per concludere, vorrei ricordare, per uscire da un certo buonismo, che la solidarietà è un dovere sancito dalla Costituzione: nel nostro ordinamento c’è il reato di omesso soccorso, con sanzioni che arrivano anche alla detenzione. Non ha compiuto un reato l’équipe medica di Udine, che ha omesso di soccorrere una disabile grave, lasciandola morire di fame e di sete?

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