Lettere al direttore

Elezioni, le pallottole buone di Letta e Freddie Mercury

Enrico Letta, segretario del Pd
Enrico Letta, segretario del Pd

Cari amici di Tempi in questa campagna elettorale sento poco parlare di temi che so esservi cari: le questioni “eticamente sensibili” e la giustizia. Perché? Cosa prevedono i vari partiti in merito a questi argomenti?

Giandomenico Setti via email

Il “perché” è semplice da spiegare. C’è l’emergenza energetica da affrontare, è il tema che tocca tutti e assilla tutti, quindi tutto il resto finisce sullo sfondo.

Ho dato un’occhiata a cosa scrivono i vari partiti nei loro programmi in merito alle due questioni (giustizia e temi etici) e vi ho trovato quel che mi aspettavo. Guardo sempre con un certo disincanto i programmi, non perché li ritenga inutili, ma, insomma, tutti sappiamo trattarsi, più o meno, di promesse e di “segnaposti” per indicare il proprio punto di vista.

Se le interessa approfondire trova qui un riassunto sulla giustizia e qui sui “diritti”. Il Domani li ha spiegati sinteticamente così: «Il centrodestra punta a riscrivere le tre riforme Cartabia e a separare le carriere dei magistrati. Il terzo polo ha recepito buona parte delle proposte garantiste delle Camere penali; il Pd punta sulla depenalizzazione, sul contrasto alle mafie, la legalizzazione della cannabis e una legge sul fine vita; il M5s vuole riformare la prescrizione, mantenere il 41 bis e dice sì a matrimonio egualitario e legalizzazione della cannabis».

Quel che pare a me è questo: il centrodestra è generalmente più garantista sulla giustizia e contrario all’estensione dei diritti (non dice cosa farà; dice che non ne introdurrà di nuovi). La sinistra, il contrario.

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Lunedì scorso il segretario del Pd Enrico Letta, evidentemente non sapendo a cos’altro appigliarsi, è tornato a lanciare – «peso le parole», ha detto testuale – un «allarme per la democrazia italiana», ovviamente riferendosi all’ipotesi che il 25 settembre sia il centrodestra a vincere le elezioni.

Ora l’aspetto a dir poco stravagante, tacendo del pungente odore di tappo che li connota, è che sia proprio un esponente del Pd a lanciare simili allarmi. Stravagante perché se c’è in Italia un serio rischio per la democrazia questo non viene dalla presunta illiberalità della destra bensì dalla certa illiberalità della sinistra. Puntualmente certificata dalla celebre copertina dell’Economist (leggi bene: Economist) di qualche tempo fa, che incidentalmente titolava “The illiberal left“.

Parliamo di quel clima culturale, prima ancora che politico, guarda caso figlio del progressismo liberal (cosiddetto) cui si ispira anche il Pd nostrano e in generale le forze di sinistra, da cui è uscito quel mostro totalitario che va sotto il nome di politicamente corretto e sue varianti woke, cancel culture, e via dicendo (egregiamente descritto, tra gli altri, da Federico Rampini – non esattamente un discepolo di Evola – nel suo Suicidio occidentale che Letta&Co farebbero bene a leggere). Un mostro che nelle università Usa ha già instaurato un clima di Terrore se possibile peggiore di quello di Robespierre e soci. Con tanto di purghe, gogne mediatiche, espulsioni e licenziamenti, character assassination, shit storming e tutto il ben noto armamentario dei novelli rivoluzionari. Il tutto naturalmente – ciò che esprime al meglio il carattere orwellianamente totalitario e la follia che c’è dietro – sotto le insegne della tolleranza, dell’inclusività, del rispetto, della non discriminazione, eccetera eccetera. “Moderne” virtù senza le quali non si può, meglio non si deve essere ammessi nel consesso della società civile.

Sta tutto qui l’orrore del politicamente corretto: che ti obbliga ad essere “buono”, e “buono” secondo un preciso canone semantico, fino al punto di toglierti la libertà. È esattamente questo il clima di polizia/pulizia del pensiero che, presto o tardi, arriverà anche da noi (e in parte è già arrivato).

Vogliamo parlare di libertà e di rischi per la democrazia? Libertà significa poter esprimere liberamente ciò che si pensa anche quando ciò che si pensa non è “corretto”. Ma soprattutto significa poter essere “buoni” per scelta, non per obbligo (tanto meno di legge), e senza che ciò infici minimamente la possibilità che si possa anche sbagliare e fare il male, reale o percepito che sia. Funziona così nei regimi liberali e nelle democrazie vere. Tutto il resto sono chiacchere e distintivo.

Luca Del Pozzo

È un po’ la logica di cui parlava Bertold Brecht: «Ascolta: sappiamo che sei nostro nemico, perciò ora ti vogliamo mettere al muro. Ma in considerazione dei tuoi buoni meriti e buone qualità, il muro sarà buono, ti fucileremo con buone pallottole, di buoni fucili e ti seppelliremo con una buona pala in terra buona».

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Caro direttore, solo due giorni fa è stato il 76° anniversario della nascita di Freddie Mercury, il leggendario frontman della rock band dei Queen (5 settembre 1946). In tanti hanno celebrato questa ricorrenza sul web e sui propri social, definendo Mercury un precursore dei moderni Gay Pride e considerandolo una sorta di paladino ante-litteram dei matrimoni e delle adozioni gay.

Guardando fino in fondo l’esperienza di Freddie Mercury, però, emerge qualcosa di ben diverso e molto più profondo. Tutti sanno, infatti, che Freddie Mercury era gay, ma pochi sanno che la persona che ha maggiormente amato nella sua vita è stata stranamente una donna: la sua prima fidanzata Mary Austin.

Quando Mercury, in giovane età, le confidò il suo vero orientamento sessuale, le disse che avrebbe voluto continuare ad amarla per tutta la vita in un modo diverso da quello che avevano immaginato insieme fino a quel momento. Le disse sostanzialmente che avrebbe continuato ad amarla per sempre, anche se il loro rapporto sarebbe stato vissuto nella totale castità.

A Mary Austin tutto ciò apparve impossibile e, in un primo momento, non dette alcun peso a quelle parole. Invece, Freddie Mercury non scherzava affatto. Il suo amore per Mary Austin continuò realmente per tutta la vita ed è sempre stato l’unico vero punto di riferimento affettivo nella sua travagliatissima esistenza.

Lui ha continuato ad amarla senza riserve, perfino dopo che lei aveva sposato un altro uomo, formando una famiglia con lui. Per lei ha scritto “Love of my life”, che, secondo molti, rappresenta la più bella canzone d’amore di tutti i tempi. Lei è stata l’unica persona che lui ha voluto accanto, mentre la sua vita si stava spegnendo. Lei è tuttora l’unica persona a conoscere l’esatto luogo in cui si trovano le ceneri di Mercury. Dopo la morte di Freddie Mercury, Mary Austin ha scoperto con grandissimo stupore di essere stata nominata erede del 50% del suo ingente patrimonio, compresa la lussuosa villa di Kessington, dove lui aveva vissuto.

In un’esistenza piena di eccessi e sregolatezze di ogni genere, insomma, ciò che ha davvero sostenuto e orientato la vita di Freddie Mercury è stato proprio quell’amore impossibile, così assurdo, eppure così vero.

Ciò che ci insegna davvero la vita di Freddie Mercury, dunque, è che amare non significa soddisfare, a tutti i costi, qualunque desiderio e qualunque capriccio. Ci insegna, al contrario, che amare davvero qualcuno significa saper fare anche un passo indietro, quando occorre, e desiderare unicamente la felicità dell’altro, senza avanzare alcuna pretesa egoistica.

Credo sia l’insegnamento di cui oggi c’è veramente più bisogno. Forse, proprio per questo, Freddie Mercury ci manca così tanto…

Antonio Arciero

Girerò la sua email a Rodolfo Casadei che anni fa scrisse per Tempi un ritratto del cantante dei Queen cui dedicammo una copertina.

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Ora, io mi metto di buzzo buono per non rischiare di ragionare male, però anche loro, santo Cielo…. Vedo il titolo: Salvini dice quello che anch’io sospetto. Ora, siccome Salvini ogni spesso dice le cose un tanto al chilo, e questo articolo promette di spiegarmi che le cose non stanno proprio cosi, leggo. Magari capisco…
Primo spiegottone: ci sono 5 diversi tipi di sanzioni, ognuno dei quali ha un suo specifico obiettivo. Ok. Il primo deve far incazzare gli oligarchi. Il secondo fare la bua al governo russo. Il terzo impedire lo sviluppo, e via così.

Scopro che sulla tecnologia prima che si vedano gli effetti campa cavallo. Che sul gas i russi guadagnano più di prima. Che il rublo si è svalutato del 30 per cento, e devo leggere almeno metà articolo per scoprire che dopo la prima settimana ha cominciato ad apprezzarsi e non ha più smesso, che per farlo valere come la carta straccia le banche occidentali hanno congelato miliardi non loro (operazione non proprio in linea con il diritto internazionale e evidentemente non l’arma “fine di mondo”…), che alla fine la propaganda russa dice le stesse cifre di Bloomberg, che la debacle tecnologica consiste nel fatto che l’Uber russo manda in giro vecchie Lada smarmittate e senza air bag e che il 5G non prende. Da noi adesso ci sono 30° e tutto va bene, madama la marchesa. Ma tra un po’ fa freddo, e speriamo che ci girino le pale (eoliche).

Concludo. O il Post è putiniano (il nemico si rafforza e noi faremo la guerra come nel ’42 sul Don «che i suoi Alpini i ghe manda a dire che non han scarpe per caminà…») o Salvini ha – sostanzialmente – ragione.

Carlo B. Scott Visconti

Foto Ansa

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