Dove vuole arrivare Erdogan

Di Rodolfo Casadei
13 Novembre 2020
Nagorno Karabakh, Siria, Iraq, Libia. Istinto di difesa e velleità neo-ottomane dell’uomo che aspira a diventare il padrone del Medio Oriente
Erdogan all'esterno della basilica di Santa Sofia a Istanbul appena convertita in moschea

Articolo tratto dal numero di novembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Nagorno Karabakh, Libia, Siria, mare Egeo, Iraq settentrionale: mai la forza militare della Turchia era stata proiettata su tanti fronti contemporaneamente. Nell’Idlib e nel Rojava (regioni siriane) così come nel Kurdistan iracheno Ankara schiera uomini e mezzi, con le inevitabili perdite; in Libia e nel Nagorno Karabakh fornisce ai suoi alleati mercenari islamisti siriani, droni, lanciarazzi e consiglieri militari; nel mare Egeo muove fregate e cacciabombardieri come in un videogioco. Dappertutto la Turchia proietta la sua potenza, incurante del crescente isolamento internazionale che la sua aggressiva politica estera produce come effetto collaterale.

Gli arabi l’hanno messa al bando, gli europei protestano settimanalmente e affidano a Grecia e Francia il compito di mostrare gli artigli, i russi soppesano le mosse per mettere Recep Tayyip Erdogan sotto scacco, con l’Iran i rapporti si sono guastati a causa della Siria e Teheran guarda con crescente apprensione le iniziative di Ankara nel Caucaso. Dalla parte della Turchia sono schierati solo governi sotto assedio come quello di Fayez al-Sarraj a Tripoli, quello del Qatar da tre anni isolato dai suoi vicini arabi, quello di Mogadiscio nella Somalia insanguinata dagli al-Shabab; oltre all’Azerbaigian del dittatore Ilham Aliyev, che nonostante la superiorità in uomini, armamenti e risorse finanziarie non appare in grado di far sloggiare gli armeni dai territori che armi alla mano rivendica. O Erdogan, il governo islamista-nazionalista e lo Stato maggiore delle forze armate turche sono degli esaltati che hanno perso il senso della realtà, o sono convinti di avere qualche asso nella manica. Una manica lunga fino a Washington. Ma per verificarlo, prima bisogna sgombrare il campo da alcuni equivoci.

Il primo equivoco è quello di attribuire al neo-ottomanesimo del presidente turco l’interventismo militare degli ultimi anni. Dopo un decennio di politiche prudenti e di avvicinamento all’Unione Europea, le primavere arabe del 2011 avrebbero destato in Erdogan e nell’allora suo ministro degli Esteri (poi primo ministro) Ahmet Davutoglu il disegno di ricreare il dissolto impero ottomano, facendo leva su di un’alleanza coi partiti politici islamisti e le forze rivoluzionarie della stessa tendenza che nei paesi arabi un tempo governati dagli ottomani portavano la sfida ai leader filo-occidentali (Egitto, Tunisia) o filo-russi (Siria, Libia). Niente di più fallace.

In continuità con il passato

Come ha scritto recentemente l’analista (svedese di origine turca) Halil Karaveli su Limes, «motivare la recente baldanza turca (…) con le ambizioni di Erdogan o con le sue convinzioni vuol dire ignorare la continuità del pensiero geostrategico che ha informato le mosse di Ankara nella regione sin dalla fondazione della Repubblica, dall’annessione della provincia siriana di Alessandretta nel 1939 all’invasione di Cipro nel 1974, fino alle recenti occupazioni di Afrin (2018) e del Rojava (2019). (…) La geografia ci dice che la Turchia cercherà sempre di proiettare forza e influenza nel Mediterraneo orientale e in Medio Oriente, indipendentemente dall’ideologia dei suoi leader».

La Turchia è uno Stato nazione imperniato sull’etnia turca e sulla turchizzazione delle minoranze, nato grazie a un genocidio (quello dei suoi cittadini armeni, 1915), a una pulizia etnica (quella dei residenti greci, 1923 e 1964) e che deve costantemente agire sul piano politico e militare per non dover ripetere una delle due cose contro l’ultima cospicua minoranza presente nel paese: i curdi. Non è tanto un’aspirazione neo-imperiale a muovere la politica estera turca, quanto un ipertrofico istinto di difesa che vede l’unità del paese sempre minacciata di disgregazione e il suo ventre anatolico a rischio di invasione (memoria della penetrazione del corpo d’armata greco in Anatolia nel 1920). Gli imperativi ideologici e militari si mescolano nell’esigenza strategica di proiettarsi continuamente in avanti per non cadere all’indietro. Chi tira in ballo semplicisticamente il neo-ottomanesimo dimentica che dal 2015 a reggere i destini della Turchia è un’alleanza fra l’Akp di Erdogan e l’Mhp di Davlet Bahçeli, il partito dei “lupi grigi” e dell’ultranazionalismo che concepisce l’islam come un’eredità culturale e non come una fede da praticare, mentre Davutoglu, caduto in disgrazia e costretto a emigrare in un altro partito islamico conservatore, nega di essere mai stato neo-ottomano.

La politica estera odierna della Turchia si iscrive in una continuità col passato; è diventata più vistosa semplicemente perché nel frattempo la Turchia è cresciuta dal punto di vista demografico, economico e militare. Continuità che Jean-François Colosimo ha rievocato su Le Figaro: «L’ambizione del presidente Erdogan è chiara. Essa si sviluppa su tutti i fronti della riconquista che sognava Atatürk. Essa si dedica a svuotare ciascuno degli antichi limes del defunto impero per ritrovare la potenza perduta. A Levante, Aleppo e Mosul, allo scopo di padroneggiare curdi e arabi. Nel Mediterraneo, le coste egee e libiche al fine di paralizzare gli europei. Nel cuore del Caucaso, allo scopo di contrastare i russi e gli iraniani, questi avversari atavici, e destabilizzare i cinesi assicurandosi un vettore d’influenza sugli Uiguri perseguitati».

Il gioco russo

Il secondo equivoco da togliere di mezzo è quello di chi crede che esista un asse strategico fra la Turchia di Erdogan e la Russia di Putin al di là dei contrasti locali che le collocano sui lati opposti della barricata. No: le convergenze fra Mosca e Ankara sono tattiche, non sono strategiche. L’ultima iniziativa di Erdogan – il sostegno politico e militare all’offensiva azera per la riconquista del Nagorno Karabakh – è un chiaro atto di ostilità nei confronti della Russia. Il Caucaso è area che fa parte degli interessi strategici di Mosca, come ha dimostrato nei decenni la sua politica muscolare in Cecenia, Abkhazia, Ossezia del Sud, eccetera.

Nella contesa fra Armenia e Azerbaigian la Russia ha esercitato nell’ultimo quarto di secolo il ruolo di arbitro all’insegna di quella che gli esperti di geopolitica chiamano “pivotal deterrence”: l’azione che una potenza egemone (regionale o mondiale) esercita per mantenere lo status quo fra due stati avversari senza schierarsi apertamente con l’uno o con l’altro. Questo ruolo richiede che la potenza terza sia in grado di condizionare il comportamento dei due attori in lite e di fare percepire come imprevedibile la sua azione nel caso di un precipitare della crisi. Finora la Russia aveva esercitato adeguatamente questo ruolo: ha preso le redini del “Gruppo di Minsk” che condivide con Stati Uniti e Francia per congelare la situazione sul campo, che vede il Nagorno Karabakh, ufficialmente territorio dell’Azerbaigian dai tempi di Stalin, controllato dai suoi abitanti di origine armena i quali hanno dato vita, supportati dalle forze dell’Armenia, a una repubblica indipendente che non è riconosciuta da nessun paese del mondo. Per non far apparire questa posizione come un favoritismo nei confronti degli armeni la Russia ha venduto armi e fatto grandi affari nel settore energetico con l’Azerbaigian, nel mentre che firmava un accordo di mutua difesa con l’Armenia, insediava due basi militari nel paese e accoglieva un milione di lavoratori armeni in territorio russo.

Strategia di espansione

L’offensiva azera palesemente istigata dai turchi – la più violenta dalla guerra del 1994 – rischia di rompere lo status quo e quindi di compromettere il ruolo egemonico della Russia nell’area. Se la Russia interviene dalla parte degli armeni, questo spingerà gli azeri fra le braccia della Turchia. Se non interviene mentre gli azeri riconquistano posizioni importanti nel Nagorno Karabakh (cosa che finora non è accaduta), gli armeni delusi torneranno a guardare all’Unione Europea, dalla quale si sono allontanati per ordine di Mosca. In entrambi i casi la posizione russa risulterebbe indebolita. Come risulterebbe indebolita se la Turchia – come ha chiesto l’Azerbaigian senza finora ottenerlo – venisse ammessa nel Gruppo di Minsk incaricato del negoziato fra le parti. Ma quel che è più grave per Mosca, è che col suo impegno in Azerbaigian Ankara ha platealmente segnalato la sua volontà strategica di espandere la sua area di influenza ai popoli turanici della galassia post-sovietica, coi quali condivide eredità linguistiche, storiche e culturali: Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Kirghizistan.

In realtà l’asse russo-turco è nato dall’intelligenza tattica di Putin, la bontà dei cui argomenti Erdogan ha riconosciuto dopo il fallito golpe militare contro di lui del luglio 2016. Dopo l’abbattimento di un Mig russo per opera di due F-16 turchi nel novembre 2015 sui cieli della Siria, Putin ha mantenuto i nervi saldi e ha spiegato ai turchi che era disposto a riconoscere il loro interesse nazionale a non veder consolidata un’entità politica curda nel nord della Siria se loro accettavano che Assad non sarebbe mai caduto, e che insieme potevano collaborare a spartirsi le aree su cui l’Occidente non riusciva più ad esercitare la sua tradizionale influenza nella regione. Soprattutto Erdogan è sembrato credere a quello che gli dicevano i russi, e cioè che dietro al tentato golpe militare del luglio 2016 c’erano gli americani: il primo paese straniero che ha visitato dopo quell’episodio è stata la Russia, dove ha avuto un famoso summit con Putin a San Pietroburgo nel novembre di quell’anno.

Sanzioni su sanzioni

Se però guardiamo agli eventi degli ultimi undici mesi, vediamo che dappertutto la Turchia ha danneggiato gli interessi di Mosca: fra il dicembre del 2019 e il febbraio di quest’anno i turchi hanno impedito che l’offensiva dei governativi siriani contro i ribelli islamisti arroccati nell’Idlib – pienamente supportata da Russia e Iran – avesse successo; nel marzo-giugno scorso hanno salvato il governo di Tripoli di al-Sarraj dall’assalto delle forze del generale Haftar, che erano forti del sostegno dei mercenari russi del gruppo Wagner che opera d’intesa col governo di Mosca; dalla fine di settembre assistono e armano l’offensiva dell’Azerbaigian nel Nagorno Karabakh, in piena area d’influenza russa; ciliegina sulla torta, il 16 ottobre scorso Erdogan e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky hanno firmato accordi di cooperazione militare fra i due paesi, dopo che l’anno scorso erano stati firmati i primi contratti per la vendita di droni turchi all’Ucraina. Nessun altro paese della Nato nell’ultimo anno ha contrastato sul campo gli interessi della Russia tanto quanto la Turchia. E in America il messaggio è arrivato forte e chiaro.

Dal 2017 il Congresso americano approva sanzioni su sanzioni ai danni della Turchia come rappresaglia del fatto che Ankara ha comprato dalla Russia un sistema di difesa missilistica (S-400) e nel nord della Siria ha attaccato i curdi delle Forze democratiche siriane (Fds) armati e addestrati da Washington. Quasi nulla ha passato il filtro del presidente Trump. Anzi: dietro sue istruzioni le truppe americane si sono allontanate dal Nord della Siria dove stazionavano al fianco delle Fds per permettere ai turchi di creare la zona cuscinetto a cui tanto tenevano.

Qualunque sia la prossima amministrazione americana, non cambierebbe la linea dell’establishment statunitense nei confronti della Turchia, vista come un alleato inquieto e irascibile ma ultimamente affidabile e prezioso per le sue insostituibili operazioni anti-russe. Tutti sanno che il Nagorno Karabakh è sempre stato un’enclave armena circondata da territori azeri: le forze armate armene hanno occupato questi ultimi per ragioni strettamente militari, e cioè per il fatto che il Nagorno Karabakh non sarebbe difendibile senza una continuità territoriale con l’Armenia e lasciando all’Azerbaigian la possibilità di metterlo sotto assedio. Chiedere agli armeni di ritirarsi da quei territori equivale a chiedere di consegnare il Nagorno Karabakh all’Azerbaigian, come vuole la Turchia.

@RodolfoCasadei

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