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Dopo la battaglia di Mosul, verrà la battaglia di Mosul

Iracheni, curdi, iraniani, turchi, sciiti, sunniti e americani. Tutti finalmente uniti contro l’Isis, tutti già pronti a farsi la guerra per il controllo della regione

Rodolfo Casadei
03/11/2016 - 3:00
Esteri
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Iraqi army soldiers man a checkpoint as oil wells burn on the outskirts of Qayyarah, Iraq, Wednesday, Oct. 19, 2016. A senior Iraqi general on Wednesday called on Iraqis fighting for the Islamic State group in Mosul to surrender as a wide-scale operation to retake the militant-held city entered its third day. (AP Photo/Marko Drobnjakovic)

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola da oggi, giovedì 3 novembre (vai alla pagina degli abbonamenti)

Dopo la battaglia di Mosul, verrà la battaglia di Mosul. Liberata dall’occupazione dell’Isis la seconda più grande città dell’Iraq, che la trasformò nella capitale del rinato califfato nel giugno di due anni fa, la cosa più probabile è che i liberatori si faranno la guerra fra di loro. Basta guardare la composizione della coalizione che il 17 ottobre scorso ha avviato la campagna militare per la riconquista dell’antica Ninive e dell’omonima provincia per rendersene conto: 30 mila uomini appartenenti alle Forze di sicurezza irachene, alle unità meccanizzate della Polizia federale, ai peshmerga del governo regionale curdo (Krg), alle milizie sunnite dell’ex governatore di Mosul Atheel al-Nujaifi armate e addestrate dall’esercito turco, alle Forze di mobilitazione popolare sciite armate e finanziate dall’Iran, alle unità dei corpi speciali dell’esercito americano, alle milizie cristiane della Piana di Ninive, alle forze aeree della coalizione guidata dagli Stati Uniti che dall’agosto del 2014 bombarda le posizioni dell’Isis. Ognuno di questi attori ha i suoi piani per quanto riguarda il futuro del nord dell’Iraq e interessi strategici diversi e spesso contrapposti a quelli degli altri partner nella coalizione.

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Tutti insieme avranno ragione, prima o poi, della resistenza dei 4-5 mila combattenti jihadisti che attualmente difendono la città e i dintorni. Prima, se l’Isis deciderà di opporre una resistenza parziale e ritirare le sue forze per trasferirle di là dalla vecchia frontiera con la Siria, destinazione Raqqa e le altre località siriane che il califfato ancora controlla. Poi, se al-Baghdadi deciderà di combattere strenuamente e ritardare il più possibile l’avanzata della coalizione nemica, allo scopo di fare scoppiare le contraddizioni strategiche fra gli alleati. Perché su una cosa tutti sono d’accordo: non esiste un piano condiviso per l’amministrazione, la ricostruzione e la gestione degli equilibri politici di Mosul e provincia dopo la sua riconquista. Gli stessi americani, senza la cui copertura aerea e senza il cui coordinamento delle forze sul terreno l’operazione non sarebbe mai iniziata, per bocca dell’inviato speciale di Obama presso la coalizione internazionale anti-Isis Brett McGurk hanno ammesso che «se cerchiamo di risolvere tutto prima di prendere Mosul, l’Isis non sarà mai sloggiata da Mosul: questa è una guerra dove lo slancio è tutto».

Obama dunque non ha paura di ripetere l’errore di G. W. Bush, che sgominò in cinque settimane le forze di Saddam Hussein e dichiarò di aver vinto la guerra, solo per scoprire pochi mesi dopo che l’occupazione dell’Iraq sarebbe costata molto sangue e che la pace non sarebbe mai stata vinta. Come Bush jr. a suo tempo, Obama non ha un piano post-bellico. Ma non se ne preoccupa perché il suo scopo è un altro: passare alla storia come il presidente americano che ha tenuto fede alla promessa di degradare e distruggere l’Isis, evitare che il merito dell’impresa vada al suo successore, che sia il repubblicano Donald Trump o l’avversaria-compagna di partito Hillary Clinton. D’altra parte, che Mosul e la regione circostante continuino a essere un focolaio di instabilità regionale dopo la cacciata dell’Isis non è per niente una iattura per gli interessi geopolitici americani: riproporre nel nord dell’Iraq la competizione fra Turchia e Iran che già esiste sui campi di battaglia siriani significa intrappolare in un logorante conflitto un alleato infido e ambizioso come Ankara e un avversario da tenere sempre sotto pressione come Teheran.

«Questo è il confine del Kurdistan»
E con questo passiamo all’individuazione delle linee di conflitto all’interno delle componenti della coalizione anti-Isis. Il premier Haider al-Abadi, a capo di un governo nominalmente di unità nazionale ma che dimostra continuamente parzialità a favore della maggioranza sciita del paese, vorrebbe semplicemente riportare Mosul sotto il controllo del governo centrale. Non sono dello stesso avviso gli altri partner della campagna militare. I sunniti, che rappresentano la maggioranza degli abitanti sia a Mosul che nei villaggi a sud e a ovest della città e in parte di quelli a est, vorrebbero un autogoverno prossimo a quello di cui gode dal 2003 il confinante Kurdistan iracheno. Questo progetto è incarnato dall’ex governatore Atheel al-Nujaifi, che per renderlo credibile ha creato una milizia personale di 4 mila elementi che si chiama Hashd al-Watani, ed è sostenuto dalla Turchia, che ha provveduto ad armarla e addestrarla presso la base militare di Bashiqa nella piana di Ninive, a un tiro di sasso dalle postazioni dell’Isis, che le truppe turche hanno occupato nel dicembre del 2015 senza il permesso di Baghdad, ma con il silenzio assenso del Krg, sotto la cui amministrazione la località si trovava prima dell’offensiva Isis.

I curdi appoggiano indirettamente il progetto turco-sunnita. Il Krg non ha alcun interesse a sacrificare le vite dei peshmerga per sloggiare l’Isis da Mosul, città da molto tempo arabizzata dove i curdi sono solo una minoranza insieme a turcomanni, cristiani e yazidi. Ne ha invece molto a recuperare i territori della piana di Ninive abitati prevalentemente da cristiani e yazidi di cui aveva assunto il controllo dopo la caduta di Saddam, e che l’Isis ha occupato nell’estate del 2014. Ha pure interesse ad allargare la sua sfera di influenza ad aree miste a est e a ovest di Mosul, dalle quali i curdi hanno già cominciato a espellere i sunniti man mano che nei mesi scorsi sconfiggevano i jihadisti in alcune località da essi occupate (Sinjar, Zummar e decine di villaggi nella regione di Mosul, Jalawla e decine di villaggi nel governatorato di Diyala). Dopo la conquista da parte dei peshmerga di Tiz Kharabi Gawra e Tiz Kharabi Bchuk, l’agenzia di stampa curda semiufficiale Rudaw ha pubblicato un filmato e un articolo che mostrano un bulldozer che scava una profonda trincea. Il testo recita: «Questo bulldozer sta tracciando i confini della regione del Kurdistan. Questo è il punto oltre il quale i peshmerga non avanzeranno più nelle loro operazioni per scacciare l’Isis da Mosul. Tutto questo ha l’aria di un evento storico. “Questo è l’ultimo punto, il confine che il presidente Barzani ci ha assegnato”, dice un ufficiale peshmerga».

Lo strano asse Ankara-Erbil
Da tre anni a questa parte, ovvero da quando il governo centrale iracheno ha sospeso i trasferimenti di bilancio al Krg a causa del fatto che esso aveva cominciato a sfruttare ed esportare petrolio per conto suo, il presidente del Kurdistan iracheno Massoud Barzani invoca lo svolgimento di un referendum consultivo sull’indipendenza della regione dal resto del paese. Nel corso di quest’anno il premier al-Abadi si è mostrato possibilista sul via libera di Baghdad al referendum e persino sull’ipotesi di secessione curda, ma molti pensano che si tratti solo di una mossa tattica per garantirsi la partecipazione dei peshmerga alla campagna contro l’Isis, e che troppi sono i territori contesi fra Krg e governo centrale (a cominciare dalla strategica città di Kirkuk, quasi completamente sotto controllo curdo dopo la fuga delle truppe irachene nell’agosto 2014 a causa degli attacchi dell’Isis) per poter arrivare pacificamente a un divorzio fra Baghdad ed Erbil. Ecco allora che i curdi sembrano volersi appoggiare alla Turchia per il successo della loro causa, formalizzando un’alleanza in apparenza contro natura ma in realtà in via di consolidamento da quasi un decennio.

mosul-battaglia-isis-tempi-copertinaTurchia e Kurdistan iracheno hanno dovuto imparare a convivere sin dai giorni della caduta di Saddam, a causa dell’anarchia che si è impadronita in poco tempo dell’Iraq: per i curdi il confine turco è diventato l’unica linea di comunicazione e di commercio con l’estero sicura, per i turchi il Krg è diventato l’unico interlocutore credibile per tutte le questioni di sicurezza nell’area di confine. Erbil ha negato ogni appoggio ai cugini del Pkk e ha autorizzato le forze aeree e terrestri turche a intervenire contro i santuari del Pkk sulle montagne di Qandil in territorio curdo iracheno; Ankara ha permesso ai curdi iracheni di far transitare sul suo territorio il petrolio che estraevano ed esportavano senza il permesso di Baghdad. Oggi nel Kurdistan iracheno operano 1.500 imprese turche, e i beni turchi esportati hanno toccato un massimo di 8 miliardi di dollari nel 2013, prima di diminuire a causa della crisi economica generale. In cambio del negato sostegno ai cugini dell’Ypg in Siria e del Pkk in Turchia, Ankara ha concesso al governo di Erbil riconoscimento politico e opportunità economiche. Il culmine del processo di avvicinamento è stato toccato nel dicembre scorso, quando il Krg ha permesso alle forze armate turche di insediare 600 uomini a Bashiqa, a 24 chilometri da Mosul.

Le minacce di Erdogan
Prova della sintonia fra Erbil e Ankara è la recente, aggressiva dichiarazione di Erdogan secondo la quale né il governo di Baghdad né le milizie popolari sciite hanno nulla da fare a Mosul, perché il controllo della città spetta esclusivamente a «arabi e curdi sunniti, insieme ai turcomanni». Il presidente turco non ha perso l’occasione per fornire un altro esempio della sua personalissima idea di diplomazia internazionale. Mentre gli americani cercavano di convincere Baghdad ad accettare la partecipazione delle forze armate turche alla liberazione di Mosul, e Baghdad rispondeva che i turchi avrebbero dovuto prima di tutto ritirare le loro forze da Bashiqa, Erdogan si rivolgeva pubblicamente al primo ministro iracheno al-Abadi con le seguenti parole: «Voi non siete il mio interlocutore, voi non siete al mio livello, voi non avete le mie qualità. Le vostre urla in Iraq per noi non hanno nessuna importanza. L’esercito turco non è così debole da prendere ordini da voi. Faremo quello che è necessario come abbiamo fatto fino ad oggi». All’ovvio irrigidimento di al-Abadi Erdogan ha reagito rincarando la dose: «Quello che voi chiamate “Baghdad” è solo l’amministratore di un esercito composto di sciiti. Dicono che stanno arrivando 30 mila sciiti. Che si preparino ad affrontarci».

E così si arriva all’ultimo punto scottante della questione: la riconquista di Mosul da parte del governo iracheno potrebbe comportare l’alterazione demografica della regione con la sostituzione di parte della popolazione sunnita con sciiti che migrerebbero nella scia delle Forze di mobilitazione popolare, le milizie filo-iraniane. Anche gli Stati Uniti vogliono evitare questo, per non concedere vantaggi all’Iran. Così si spiegano gli incredibili sforzi del segretario alla Difesa americano Ashton Carter, che cerca di riconciliare e far collaborare Turchia e Iraq alla comune causa (alla quale Ankara ha aderito tardivamente) della lotta contro l’Isis.

L’influenza di Teheran
Al-Abadi è ben consapevole dei rischi che corre se lascia briglia libera alle milizie sciite: Erdogan prenderebbe a pretesto nuovi atti di pulizia etnica contro i sunniti (le Forze di mobilitazione popolare ne hanno già compiuti nel governatorato di Diyala, e ora minacciano di compierli nella provincia di al-Anbar) per inviare truppe su Mosul. Per questo è stato annunciato che le milizie resteranno fuori dalla città, che sarà liberata dall’esercito e poi controllata dalla polizia e dalle tribù locali.

Non tutto ciò che è sciita, però, è nelle mani di al-Abadi. Le milizie più strettamente legate all’Iran potrebbero decidere di obbedire alle indicazioni che arriveranno da Teheran piuttosto che a quelle del premier, che pure il 15 ottobre ha incontrato i leader dei gruppi più importanti. E gli iraniani faranno le loro mosse in coerenza con la politica che praticano in Iraq dal giorno della caduta di Saddam, cioè mantenere debole la struttura istituzionale per aumentare il peso della propria influenza su tutti i livelli della politica irachena: governo, partiti, milizie.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa/Ap

Tags: IraqIsiskurdistanmosulSiriaTurchia
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