Da un anno in Afghanistan le ragazze non vanno più a scuola
Nei giorni scorsi l’Onu ha lanciato un nuovo appello ai talebani (al potere ormai da un anno in Afghanistan) perché rivedano la loro scelta di escludere le ragazzine dai 12 ai 18 anni dalla scuola e dalle università. Sono quasi tre milioni, secondo Unicef, le afghane rimaste chiuse in casa, senza la possibilità di tornare in aula e senza alcuna prospettiva.
Un anno di tenebre in Afghanistan
Quando parliamo di studentesse che non possono tornare sui banchi, dobbiamo pensare che per la maggior parte di loro frequentare la scuola significa avere garantito un pasto al giorno in un contesto di povertà crescente, significa poter intrattenere relazioni (oggi uscire di casa non accompagnate da un uomo è proibito e un rischio), significa studiare e pensare di poter avere un lavoro per essere indipendenti un domani. Chi rimane a casa rischia l’emarginazione, sfruttamento, abusi e perfino di essere venduta ancora minorenne dalla propria famiglia per matrimoni combinati frettolosamente in cambio di qualche soldo. Non è una brutta favola, ma una devastante realtà.
Domenica, il 18 settembre, è passato un anno esatto dal “non inizio” scolastico e non sono mancate proteste di fronte al ministero dell’Istruzione (subito sedate dalla polizia talebana). Una cinquantina di coraggiose studentesse afghane, poi, hanno inviato una lettera intitolata “Un anno di tenebre” a tutti i leader dei paesi musulmani e all’Onu chiedendo di essere ascoltate: «L’anno scorso ci sono stati negati i diritti umani, come il diritto a ottenere un’istruzione, il privilegio di lavorare, la libertà di vivere con dignità, libertà di movimento e parola, e il diritto di determinare e decidere da soli. Tutto questo deve finire».
«Non abbiamo più niente»
Ne è convinta anche Azra Jafari, di etnia hazara e prima donna sindaco in Afghanistan durante il governo Karzai, oggi paladina dei diritti umani in esilio negli Usa. Durante il primo regime talebano sostenne la nascita di una scuola clandestina che negli anni ha formato oltre ottomila studenti. «Molte studentesse di quella scuola hanno continuato a studiare, alcune sono andate all’estero e hanno perfino preso la laurea». Oggi, racconta ai giornalisti, il buio è davvero tornato. «Per vent’anni abbiamo cercato di far funzionare un sistema democratico, per vent’anni siamo stati pieni di speranza e di voglia di ricostruire. Ora non abbiamo niente, è stato tutto cancellato di nuovo».
«La nostra Costituzione dichiara essenzialmente che siamo tutti uguali», continua l’attivista. «Ma nel mio paese non siamo tutti uguali, per i talebani non è uguale essere maschio o femmina, non è uguale essere musulmano sunnita, sciita o far parte della minoranza hazara. E infatti le donne, le bambine e le minoranze vengono perseguitate. La popolazione femminile oggi non conta più nulla, è limitata nel vestirsi e negli spostamenti, non può studiare, non può più svolgere ruoli di alto livello. Possono solo diventare maestre elementari o entrare nel personale ospedaliero», vista la carenza che si è creata dopo il grande esodo dell’agosto 2021.
I talebani rubano il futuro alle donne
Quando ricorda i vent’anni di tentativi di emancipazione, Jafari ha in mente storie e dati ben precisi. Ricorda che sotto il regime talebano perfino partorire era un rischio (e lo è anche oggi, visto che pochi mesi fa un’ostetrica è stata uccisa dalla polizia talebana perché sorpresa mentre correva a prestare aiuto a una donna partoriente, senza essere accompagnata da un uomo). E ricorda che dopo il 2001, quando i talebani se ne andarono, il numero di studentesse e di imprese femminili ebbe un’impennata. Anche la politica si accorse di loro, tanto che il 27% dei seggi della Camera bassa del Parlamento fu destinato alle donne.
Nacquero oltre 3.500 piccole cliniche sparse in tutto l’Afghanistan per le madri che avevano bisogno di assistenza con i figli, la mortalità per parto crollò rapidamente mentre l’aspettativa di vita femminile passò dai 56 anni del 2001 ai 66 del 2017 (dati riportati anche dal Brookings Institute). Le scuole e le università riaprirono i battenti alle ragazze e per due decenni sfornarono avvocati, medici, impiegate della pubblica amministrazione, giornaliste, insegnanti.
Non era tutto uguale, certo. Vivere nelle grandi città era una cosa, vivere in villaggi sperduti un’altra. «Ma se i talebani fossero rimasti in disparte, il processo sarebbe continuato e avrebbe raggiunto pian piano tutte le donne e le bambine del mio paese», ripete ancora l’attivista hazara. Non è stato così. Oggi quelle donne sono fuggite all’estero o vivono nell’ombra. E le loro figlie vestono l’hijab e sono prigioniere in casa senza libri, senza maestri. Senza futuro.
Foto Ansa
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!