Cosa succederà all’euro e cosa succederà al debito italiano all’indomani della prevista vittoria dell’estrema sinistra di Alexis Tsipras alle elezioni greche anticipate del 25 gennaio? La Grecia uscirà dalla moneta unica o proseguirà la sua via Crucis a base di austerità in cambio di tranches di aiuti finanziari internazionali? Pericoloso fare pronostici troppo decisi. Se persino Luca Ricolfi sulla prima pagina del Sole 24 Ore dell’11 gennaio si limita a descrivere uno scenario A ottimistico e uno scenario B catastrofico, chi siamo noi per lanciarci in profezie, di sventura o di buona ventura? Tutt’al più, si può cercare di distinguere uno scenario razionale da uno irrazionale, e poi, tenendo conto che a volte la storia registra il sopravvento dell’irrazionale, distinguere al suo interno uno scenario di conseguenze sostenibili da uno di conseguenze insostenibili.
Lo scenario razionale è quello in cui il leader di Syriza vincitore delle elezioni e la troika Ue-Fmi-Bce raggiungono un compromesso molto al ribasso rispetto ai toni e alle promesse della campagna elettorale. Tsipras vince ma non ottiene la maggioranza assoluta in parlamento; forma un governo di coalizione con qualche partitino centrista e fa passare le modestissime concessioni di Bruxelles come grandi conquiste dovute alla sua intransigenza e al coraggio del popolo ellenico che ha deciso di scuotere il giogo delle politiche di austerità. Non può fare diversamente, perché le briscole ce le ha tutte in mano la Merkel, e il suo bluff a base di minacce di premere il bottone rosso della guerra nucleare (la cessazione del pagamento degli interessi sul debito) non può funzionare: si sta giocando a briscola e non a poker. La Grecia non può mandare a gambe all’aria l’euro dichiarando un default, come si temeva nel 2012, perché nel frattempo il quadro dei creditori è cambiato insieme agli strumenti finanziari a disposizione dell’Eurozona, mentre è certo che i danni peggiori di una bancarotta li patirebbe Atene.
Lo scenario irrazionale è quello in cui i vincitori delle elezioni si mostrano irremovibili rispetto ai contenuti del programma elettorale in base al quale hanno ottenuto i voti: annullamento e rinegoziazione degli accordi con la troika, cancellazione del 50 per cento degli attuali 317 miliardi circa di euro di debito pubblico greco e fine delle politiche di austerità, sostituite da 10 miliardi di euro aggiuntivi di spesa pubblica per rialzare il salario minimo e aumentare lo stipendio della funzione pubblica e l’assegno dei pensionati. Tsipras non se la sente di deludere gli elettori che l’hanno votato proprio per il suo radicalismo (ha chiesto persino il pagamento dei danni di guerra dell’occupazione nazista del 1941-1944 e la restituzione dei marmi del Partenone che si trovano al British Museum), ovvero cede alle pressioni delle correnti oltranziste di Syriza e non transige sulle sue richieste. La Bce cessa di finanziare la liquidità delle banche greche e di funzionare da prestatore di ultima istanza, la troika blocca la parte restante di aiuti ancora da erogare e i mercati bocciano la rottura dell’accordo con tassi di interesse del debito greco proibitivi. Per evitare la corsa agli sportelli e il conseguente fallimento delle banche, il governo impone il controllo sui capitali ed è costretto a reintrodurre la dracma. Si verifica la tanto temuta uscita dall’euro: agognata da alcuni partiti populisti nel resto d’Europa, ma non certo in Grecia dove il 74 per cento dei cittadini vuole che il paese resti dentro alla moneta unica, e dove Syriza ha sempre proclamato – contro ogni realismo e sollevando lo scetticismo degli osservatori – di volere allo stesso tempo ottenere la cancellazione di metà del debito e restare nell’euro. Gli ellenici non sbagliano, perché la loro economia non è mai stata orientata all’export e non ha guadagnato competitività nemmeno in questi anni di politiche di austerità. Il ritorno alla dracma in Grecia produrrebbe solo iperinflazione e un rapido riformarsi del debito eliminato col default.
Due scuole di pensiero
Lo scenario irrazionalista potrebbe prendere corpo soprattutto a causa del fattore tempo. Atene e la troika dovevano revisionare l’attuazione del programma di aggiustamento strutturale entro la fine di dicembre. Secondo gli europei e il Fmi il bilancio della Grecia aveva sforato di 2 miliardi di euro rispetto a quanto stabilito dai patti, e non avrebbero dato il via libera a un’ulteriore tranche di aiuti senza una soluzione a questo problema. Samaras, il premier uscente, aveva ottenuto che il negoziato andasse avanti fino alla fine del febbraio 2015. Con le elezioni al 25 gennaio, la quasi certa mancata conferma dell’esecutivo uscente, la necessità di dar vita a un governo di coalizione e scadenze di rimborsi imminenti – la Grecia deve restituire 2 miliardi di euro a creditori privati entro la fine di febbraio e 1,5 miliardi al Fmi entro la fine di marzo – Tsipras si troverà con l’acqua alla gola e con troppo poco tempo a disposizione per una piroetta di moderatismo.
Agli altri europei di tutto questo importa poco. La loro preoccupazione è un’altra. Si chiedono: l’eventuale uscita della Grecia dall’euro avrebbe conseguenze sulle finanze degli altri paesi oppure no? Qui le scuole di pensiero si divaricano. Berlino sostiene che non accadrà nulla di irreparabile, che la posizione di Italia, Spagna, Portogallo e Irlanda è sufficientemente solida, che l’Eurozona dispone oggi di strumenti come il Meccanismo europeo di stabilità e l’unione bancaria che la mettono al riparo dalle turbolenze greche. Luca Ricolfi nel suo commento citato in apertura, sottolineano che non tutti i paesi europei indebitati sono uguali: la posizione dell’Italia è molto più esposta di quella di altri. «Nel luglio del 2011 la posizione relativa dell’Italia era la migliore fra quelle dei cinque Piigs, nel senso che tutti e quattro gli altri paesi dovevano pagare interessi maggiori dei nostri. (…) Oggi non è più così: Irlanda e Spagna hanno rendimenti migliori dei nostri, il Portogallo li ha leggermente peggiori, solo la Grecia sta decisamente peggio di noi. Se prevalesse lo scenario B (quello irrazionale), saremmo tutt’altro che al sicuro».
Quanto ci rimette Roma
Effettivamente l’Italia è forse il paese che più ha da perderci se la Grecia non resta sottomessa al soffocante programma di aggiustamento strutturale che è all’origine della prevista vittoria dell’estrema sinistra alle elezioni. L’onerosità dei tassi d’interesse pagati dal nostro paese per il suo debito si riflette sull’incidenza che gli interessi pagati hanno sulla nostra ricchezza nazionale: secondo Public Policy, un istituto indipendente di ricerca irlandese, l’Italia è il paese che ha speso di più in Europa per il servizio del debito non solo in cifra assoluta, ma anche in rapporto al Pil: 5,2 per cento, ovvero più della Grecia che si è fermata al 4,8 per cento (l’Irlanda sta al 4,7, il Portogallo al 4,3 e la Spagna al 3,5). È per questo che Lorenzo Bini Smaghi, già membro del comitato esecutivo della Bce, sul Financial Times ha scritto che, numeri alla mano, «il debito greco appare più sostenibile di quello di molti altri paesi. (…) È vero che, paragonato al periodo pre-crisi, il Pil pro capite della Grecia è diminuito del 25 per cento circa, più di qualunque altro paese dell’Eurozona, è cioè più dell’Italia (13 per cento), della Spagna (9) o del Portogallo (6). Tuttavia, nonostante la recente forte flessione, il reddito medio della Grecia è ancora di 8 punti percentuali più alto che all’inizio dell’unione monetaria, come è il caso anche di Spagna, Francia e della media dell’Eurozona, e meglio di Italia e Portogallo».
I simpatizzanti della linea politica di Tsipras sostengono che il suo successo è nell’interesse di tutti i paesi europei che oggi sono costretti a praticare politiche di austerità, perché la conferenza per la ristrutturazione del debito dei paesi europei e la cancellazione parziale di debiti che lui propone avvantaggerebbero i paesi indebitati come l’Italia. Non è così. Intanto è proprio il cattivo esempio che la condiscendenza verso la Grecia costituirebbe a spingere la Germania e i suoi alleati (Olanda e Finlandia) all’intransigenza assoluta: se si permette agli ellenici di sfondare gli obiettivi di bilancio, di non pagare i debiti e di aumentare la spesa pubblica, come si potrà poi dire no a Italia e Francia che avrebbero bisogno degli stessi provvedimenti e che comincerebbero a richiederli se già sono stati concessi a qualcuno? Poi c’è un altro fatto: dopo le ristrutturazioni del 2012, la maggior parte del debito greco è nelle mani dei governi europei o di entità che ne sono l’emanazione. Dei 317 miliardi di euro del debito greco, 24 sono nelle mani del Fmi, 27 in quelle della Bce e delle altre banche centrali della Ue e 54 in quelle di investitori privati. Su tutti questi Syriza non può chiedere cancellazioni, pena l’esclusione dai mercati. Poi ci sono 53 miliardi di euro di prestiti bilaterali coi paesi europei e ben 142 provenienti dal Meccanismo europeo di stabilità. È lì che la scure dovrebbe abbattersi. Ma tagliare lì vuol dire imporre perdite ai paesi dell’Unione che hanno finanziato il debito greco. Si calcola che, se la troika accettasse le richieste di uno Tsipras primo ministro, la Germania ci rimetterebbe 30 miliardi di euro, l’Italia e la Francia 20 a testa. Le stesse perdite ovviamente si verificherebbero in caso di bancarotta della Grecia.
Morale: tutti i governi d’Europa sperano che il governo Tsipras non si comporti troppo diversamente dal governo Samaras. Perché è vero che per contrastare la disoccupazione e il declino dei redditi oggi bisognerebbe poter spendere in deficit. Ma siamo troppo indebitati per farlo.