Come bestie nelle celle della Corea del Nord

Di Caterina Giojelli
29 Marzo 2022
Percosse, torture, neonati ammazzati, «ricordarsi che eravamo persone non ci avrebbe aiutato a sopravvivere». Un database raccoglie oltre cinquemila violazioni dei diritti umani nelle prigioni del paese di Kim Jong-un
Un rendering della prigione di Onsong, Corea del Nord
Un rendering della prigione di Onsong, Corea del Nord

Prigione di Onsong, Corea del Nord. Lee Young-joo si sentiva «un animale, non un essere umano». Seduta, gambe incrociate, mani sulle ginocchia, doveva rimanere immobile, a testa bassa, per 12 ore ogni giorno. Sapeva cosa le sarebbe costato un solo gemito o sussurro a un compagno di cella. La guardia pattugliava l’ingresso camminando avanti e indietro davanti alle sbarre, un rosario interminabile di passi metallici.

Lee Young-joo indica alla Bbc la “sua” cella, la numero 3, dalla quale poteva sentire urla e percosse fino alla cella numero 10, quella dei prigionieri politici. Il rendering in 3d realizzato da Korea Future rappresenta fedelmente il corridoio del penitenziario sul quale si affacciavano le cellette, una topaia infestata dai pidocchi e dal fetore delle tazze aperte dei gabinetti, divisa da mura e sbarre in spazi minuscoli nei quali i detenuti erano costretti a entrare strisciando o a carponi da una porticina alta un metro, per poi stiparsi in file per tre, seduti a gambe incrociate, schiena dritta, spalle curve, occhi a terra. Racconta Lee Young-joo che ricordarsi di essere una persona e non un animale a cui elargire un sorso di acqua maleodorante e chicchi di mais, non l’avrebbe aiutata a sopravvivere.

Il destino dei disertori della Corea del Nord

Perché si trovava lì? Perché come quasi tutti i prigionieri di Onsong aveva cercato, nel 2007, di fuggire dalla Corea del Nord. Catturata in Cina, era stata rispedita in patria e nel centro a un solo miglio dal confine in attesa di essere condannata. Eppure, come si poteva e quando si poteva, a Onsong non si sussurrava d’altro: trovare un modo di lasciare il paese. Un giorno una guardia la beccò, «mi ordinò di allungare le mani oltre le sbarre della cella, e iniziò a picchiarmi con l’anello delle chiavi finché diventarono enormi, gonfie e blu. Considerava quelli come me, hanno cercato di lasciare la Corea del Nord, dei traditori».

Nel suo archivio North Korean Prison Database lanciato a marzo, Korea Future ha identificato 597 autori di reati legati a 5.181 violazioni dei diritti umani commesse contro 785 detenuti in 148 strutture penali in Corea del Nord. Lee Young-joo è solo una delle 200 persone che con le loro testimonianze hanno permesso di aggiornare le inchieste sulle violenze perpetrate dai funzionari dello Stato.

«Finché il sangue schizzava verso l’alto»

Tempi vi aveva già raccontato qui alcune storie dal terribile dossier Persecuting Faith: documentazione delle violazioni della libertà religiosa in Corea del Nord, pubblicato da Korea Future il 27 ottobre scorso in occasione della Giornata internazionale della libertà religiosa. Storie di cristiani privati arbitrariamente della libertà, del diritto a un processo equo, sottoposti a «tortura o trattamenti crudeli, inumani e degradanti», dove il “condannato” più giovane e deportato nei campi di detenzione risulta essere un bambino di 2 anni. Le torture consistevano in percosse fisiche con oggetti, pugni e calci; ingestione di cibo contaminato; privazione del sonno; salti squat fino allo sfinimento. Ko Sun Hee, detenuto anche lui a Onsong, ha raccontato che le guardie intrappolavano la testa dei detenuti, sospettati di leggere la Bibbia di nascosto, tra le sbarre della cella, per poi colpirli ripetutamente in faccia «finché il sangue schizzava verso l’alto».

Oggi il database pubblica tutte le storie, denunce, testimonianze di esecuzioni raccolte tra i sopravvissuti. Il co-direttore di Korea Future a Seoul, Suyeon Yoo, ha confermato alla Bbc che il sistema carcerario e la violenza al suo interno vengono sistematicamente usati per «reprimere una popolazione di 25 milioni di persone. Ad ogni intervista ci rendiamo conto dell’impatto sulla vita umana. Un’intervistata ha pianto mentre raccontava di aver assistito all’uccisione di un neonato».

Stupri, aborti, neonati ammazzati

I racconti di stupri e aborti sono frequenti: nel centro di detenzione di North Hamgyong, una donna ha descritto l’aborto praticato a una donna incinta di 8 mesi: nato vivo, il suo bambino era stato annegato in un catino colmo d’acqua. I vagiti dei neonati ammazzati tormentano da anni i sopravvissuti.

Saerom racconta che peggio di Onsong, da cui Young-joo è uscita viva dopo tre anni e mezzo di prigionia, ci sono solo le carceri di massima sicurezza dello Stato, «ci picchiavano la cosce con bastoni di legno, entravi in piedi, uscivi strisciando». Saerom ringrazia per ogni momento di felicità ora che vive in Corea del Sud e l’incubo delle bastonate, le grida, lo sguardo fisso avanti a te per salvare la tua anima dal ricordo delle gente frustata è lontano. Le ex detenute sperano che il rapporto a cui hanno contribuito esperti dell’International Criminal Court trovi eco sui giornali, arrivi nei tribunali e restituisca loro un po’ di giustizia.

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