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La preghiera del mattino

Condannare l’aggressione russa, certo, ma non senza indagarne le ragioni

Lodovico Festa
28/02/2022 - 11:05
Blog
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Protesta contro la guerra in Ucraina
Protesta contro l’aggressione russa all’Ucraina davanti a un tank T-34 nel Memoriale di guerra sovietico a Berlino (foto Ansa)

Su Huffington Post Italia Federico Punzi scrive: «Memorabile la reprimenda di Trump davanti al segretario generale della Nato Stoltenberg: si suppone che dovremmo difendere la Germania dalla Russia ma intanto Berlino paga a Mosca miliardi di dollari per il suo gas rendendosi dipendente».
Con la sua abituale brutalità Punzi ricorda, in occasione della radicale svolta della politica estera di Berlino attuata in questi giorni, come si è arrivati a questo punto combinando retorica europeistica e opportunismo merkelliano. Come spiegava Niccolò Machiavelli: «Li uomini si debbono o vezzeggiare o spegnere; perché si vendicano delle leggieri offese, delle gravi non possono: sí che l’offesa che si fa all’uomo debbe essere in modo che la non tema la vendetta». Dare un ruolo centrale al gas russo, senza costruire insieme un sistema di sicurezza europea che non giustificasse (sia pure immoralmente) le avventure di Vladimir Putin è stata l’essenza di una politica della ex cancelliera (dal 2005 inutilmente incalzata da Washington) che insieme tentava di vezzeggiare e spegnere Mosca.

Su Formiche Lawrence Freedman, professore emerito del King’s College di Londra, dice: «“L’evidente resistenza ucraina e i costi della guerra per entrambe le parti aumentano anche la posta in gioco per Putin in patria”, continua. Le guerriglie urbane nella capitale cecena Grozny e nella città siriana di Aleppo sono state dirette conseguenze delle campagne russe. Inoltre, “il livello di opposizione in Russia (e la mancanza di supporto entusiasta) è impressionante”, osserva. “È stato strano per Putin insistere sul fatto che l’Ucraina dovrebbe davvero essere parte della Russia e poi aspettarsi che le persone tollerino che i loro compagni slavi – spesso i loro parenti – vengano bombardati”».
Un intellettuale di qualità, molto utilizzato dall’intelligence britannica, ragiona su un possibile esito dell’invasione ucraina fallimentare per Mosca. Non è inutile tenerne conto, ma è opportuno avere presente scenari differenziati, per non commettere gli errori che oggi ragionevolmente si attribuiscono a Putin.

Su Tpi Alan Friedman dice: «Io onestamente temo che se Putin prendesse l’Ucraina, come ha preso la Crimea senza sufficienti ripercussioni, si fermerà per poi puntare su altri paesi non Nato ma comunque ai confini con la Russia. Io temo che il disegno che ha in mente Putin sia quello di ricostituire l’Unione Sovietica anche se per lui sarà molto costoso inseguire quest’idea e già tenere sotto la sua sfera politica la stessa Ucraina».
Ecco un esempio di un’analisi sbagliata. L’Unione Sovietica post ’45 non avrebbe potuto esistere senza il movimento comunista internazionale (frutto diretto della guerra 1914-18) e senza la vittoria sulla Germania nazista che con la Conferenza di Yalta definiva un nuovo ordine mondiale (pensate solo al Consiglio di sicurezza dell’Onu). In realtà per capire il nuovo mondo bisogna pensare alla fine Ottocento-inizi Novecento, quando l’ordine definito dal Congresso di Vienna è stato incrinato nel 1870 dalla nascita della Germania unificata, quando tanti “imperi” che tenevano insieme il mondo (quello asburgico, quello ottomano, quello russo) si stavano sgretolando, e la potenza regolatrice del mondo nella seconda metà dell’Ottocento, la Gran Bretagna, non s’impegnava a costruire il prossimo “ordine mondiale”. In quest’ottica il paragone storico più interessante è quello con la guerra di Crimea combattuta dal 4 ottobre 1853 al 1º febbraio 1856 fra l’Impero russo da un lato e un’alleanza composta da Impero ottomano, Francia, Gran Bretagna e Regno di Sardegna dall’altro. Riflettere su che cosa significò isolare i russi senza avere un’idea chiara con quale equilibrio “europeo” sostituire quello che si era costruito con il Congresso di Vienna, fu una scelta che determinò il destino del Vecchio Continente fino alla guerra del 1914-18.

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Su Formiche il presidente di Europa Atlantica, Andrea Manciulli, dice: «Nel discorso alla nazione tenuto da Putin alla vigilia dell’invasione, il presidente russo ha cercato di condire ideologicamente questa offensiva, basandosi su un excursus storico molto forzato, in cui si sono messe insieme ad hoc fasi diverse della storia dell’Ucraina. Si è trattato di un architrave ideologico dell’aggressione. Nella comunicazione successiva, con cui di fatto ha dichiarato guerra a Kiev, Putin ha affermato di voler “de-nazificare” l’Ucraina, una forzatura incredibile. Il Cremlino cerca una giustificazione ideologica, cercando in qualche modo di mistificare la realtà a suo vantaggio».
La costruzione ideologica che ha accompagnato l’aggressione russa all’Ucraina è senza dubbio sgangherata. Non solo sono secolari le differenze tra russi e ucraini, ma sono diventate ancor più definitive dopo il 1992. La farlocca ideologia putiniana tra l’altro non ha fatto che mobilitare la comunità nazionale guidata dal presidente Volodymyr Zelensky. Anche questo aspetto serve però a farci capire come dietro Mosca non vi sia nessuna ideologia organica tipo quella nichilistico-pagana dei nazisti o quella utopico-distopica del movimento comunista, bensì un senso di orgoglio nazionale ferito e in parte disperato che cerca di difendere (spesso immoralmente) le proprie ragioni e sopravvivenza.

Sulla Zuppa di Porro Corrado Ocone scrive dell’ambiguità «da parte dell’Anpi ovviamente, come è stato sottolineato da Renzi, nel condannare l’aggressione russa dell’Ucraina ma poi nel darne sostanziale colpa a Biden e all’Occidente: il primo autore di “clamorose ingerenze nella vita interna dell’Ucraina”, il secondo responsabile ultimo della situazione creatasi a causa del “continuo allargamento della Nato ad est, vissuto legittimamente da Mosca come una crescente minaccia”. Ma anche da parte di Renzi c’è tanta ambiguità, la stessa in verità che hanno da sempre le classi dirigenti italiane verso questa associazione titolare di credenziali del tutto immeritate. Se infatti da un lato il leader di Italia viva ha definito senza perifrasi “vergognose” le parole che si leggono in un documento ufficiale e sul sito dell’Anpi, dall’altro ha tenuto ad aggiungere, e non si capisce perché lo abbia fatto, di aver tenuto sempre in grande considerazione l’Associazione tanto da aver chiesto quando era sindaco di Firenze a tutti i membri della sua giunta di iscrivervisi. Renzi ha poi aggiunto che, col suo antiamericanismo, l’Anpi è “indietro con le lancette della storia” e che i partigiani di settanta anni fa “avrebbero capito da che parte stare tra invasori e invasi”. Ebbene, no!: la posizione dell’Anpi non è retrograda, è (ed era anche settanta anni fa) semplicemente sbagliata; e che i partigiani veri sarebbero stati senza dubbio dalla parte dell’Occidente è vero solo per una parte minoritaria di loro».
Ocone come al solito ha molte ragioni, e aiuta innanzitutto a distinguere tra la polemica sulla storia retoricamente evocata da Renzi e quella sulla politica dei nostri giorni, ma dovrebbe anche suggerirci quanto possiamo spingerci in un’analisi critica della situazione attuale. È evidente che siamo di fronte a un problema etico: non si può mettere sullo stesso piano aggressore e aggredito. Ma siamo anche in una fase per così dire integralmente bellica nella quale non si può ragionare sul processo storico che ha determinato l’attuale situazione, perché se no il “nemico” utilizza i nostri argomenti? Dobbiamo limitarci alla mobilitazione militante, senza riflettere sul contesto che ha determinato la crisi ucraina e dunque rimandando l’impegno a trovare eventuali soluzioni solo a quando le armi taceranno?

Su Formiche Emmanuele Rossi scrive: «Per ora va detto che la Russia non ha usato armi pesanti, anche perché Mosca vuole evitarsi il peso di centinaia e centinaia di vittime civili (per ora sono una settantina, ma su tutti i media del mondo stanno rimbalzando le loro storie strazianti, come quella di un bambino di sei anni ucciso da fuoco incrociato a Kiev)».
Come è noto la guerra si evolve: dai grandi massacri alla Gengis Khan alle guerre tra professionisti, all’esercito popolare della Rivoluzione francese alle anticipazioni della guerra moderna totale nella Guerra civile americana. Essenzialmente dopo il Vietnam abbiamo la guerra documentata e condizionata dalla televisione che frena le tendenze al massacro dei civili, come in parte si è visto in Medio Oriente e oggi, in parte, in Ucraina. Sullo sfondo c’è sempre il rischio del conflitto nucleare anche con l’uso di atomiche tattiche. Mentre è indispensabile isolare l’immorale aggressione russa che vuol risolvere con la forza questioni che dovrebbero essere sciolte solo dalla diplomazia, ci si chiede anche: si è sempre adeguatamente considerato come sia rischioso umiliare e mettere con le spalle al muro la seconda potenza nucleare del pianeta?

Su Formiche Francesco Bechis riporta questo giudizio espresso qualche giorno fa da Ian Bremmer, presidente di Eurasia Group e politologo americano di fama: «Di questo passo, Mario Draghi rischia di diventare un nuovo Gerhard Schröder».
Anche il Wall Street Journal aveva già attaccato Draghi, che poi ha modificato il suo atteggiamento. Ecco un altro pasticcio combinato non eleggendo Draghi presidente della Repubblica: non potendo giocare di sponda con il governo, come avrebbe potuto fare dal Quirinale, è costretto a obbedire di corsa agli input che gli vengono da una Washington che spesso meriterebbe un’interlocuzione sicuramente leale ma più articolata.

Su Strisciarossa Jolanda Bufalini scrive: «Il sondaggio più recente, di febbraio, condotto dal Levada Center, istituto demoscopico indipendente sugli orientamenti dell’opinione pubblica russa, dà il gradimento nei confronti dell’operato di Putin al 71 per cento, in salita di 10 punti rispetto allo scorso agosto (nel grafico non c’è la data esatta di rilevazione ma è probabile che sia stata fatta prima dei bombardamenti a Kiev)».
Non è priva di interesse l’analisi della Bufalini che da un lato ricorda come la leadership di Vladimir Putin conta su un consistente consenso da parte della popolazione russa, dall’altro nota come vi sia un dissenso attorno al 30 per cento che non è affatto trascurabile e su cui si può costruire nel domani. Va tenuto conto che le dialettiche tra conservatorismo con tratti assolutamente autoritari del putinismo e le correnti liberal fortemente cosmopolite corrispondono alla divisione politica città/campagna ormai presente in tutto il mondo e in Russia, dove la componente contadina è ancora molto forte, ancora più accentuata.

Su Startmag si pubblica un articolo di Tino Oldani su ItaliaOggi nel quale si scrive: «Tra i documenti citati, spicca per importanza quello scovato nei British National Archives di Londra dal politologo americano Joshua Shifrinson, che ha collaborato all’inchiesta del settimanale tedesco e se ne dichiara “onorato” in un tweet. Si tratta di un verbale desecretato nel 2017, in cui si dà conto in modo dettagliato dei colloqui avvenuti tra il 1990 e il 1991 tra i direttori politici dei ministeri degli Esteri di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania sull’unificazione delle due Germanie, dopo il crollo di quella dell’Est. Il colloquio decisivo, riporta Der Spiegel, si è svolto il 6 marzo 1991 ed era centrato sui temi della sicurezza nell’Europa centrale e orientale, oltre che sui rapporti con la Russia, guidata allora da Michail Gorbaciov. Di fronte alla richiesta di alcuni paesi dell’Est Europa di entrare nella Nato, Polonia in testa, i rappresentanti dei quattro paesi occidentali (Usa, Gran Bretagna, Francia e Germania Ovest), impegnati con Russia e Germania Est nei colloqui del gruppo “4+2”, concordarono nel definire “inaccettabili” tali richieste. Il diplomatico tedesco occidentale Juergen Hrobog, stando alla minuta della riunione, disse: “Abbiamo chiarito durante il negoziato 2+4 che non intendiamo fare avanzare l’Alleanza atlantica oltre l’Oder. Pertanto, non possiamo concedere alla Polonia o ad altre nazioni dell’Europa centrale e orientale di aderirvi”. Tale posizione, precisò, era stata concordata con il cancelliere tedesco Helmut Kohl e con il ministro degli Esteri, Hans-Dietrich Genscher».
Non manca un tratto di paranoia in certe scelte putiniane, però non va scordato il contesto, non per giustificare aggressioni come quella all’Ucraina, ma per capirne le ragioni. Non si può dimenticare che la Russia si fonda come risposta all’incubo dell’invasione dell’Orda d’oro e che questo incubo è rinnovato sia da Napoleone sia da Hitler. La scarsa sensibilità americana, il saccheggio stile “guerra dei boxer cinese” nell’era eltsiniana, il rimangiarsi impegni come quello su descritto spiegano (non giustificano certo) bene non solo la psicologia (appunto non priva di paranoia) di Putin, ma anche l’orientamento di un bel pezzo di società russa.

Su Dagospia, tratta da un articolo di Paolo Valentino sul sito del Corriere della Sera, si riporta un’intervista a Dmitrij Suslov, che dirige il Centro di Studi europei e internazionali presso la Scuola superiore di Economia di Mosca, uno dei pensatoi di politica estera più vicini al Cremlino, il quale dice: «Cina, India, Medio Oriente, Africa, America latina non la isoleranno. Pechino non critica Mosca, oggi Lavrov ha parlato con il ministro degli Esteri cinese e non c’è stata una sola critica da parte sua. Forse la Cina non gioisce di fronte a questa azione, ma la sua posizione nei confronti della Russia è amichevole e questo ci aspettiamo dalla maggioranza dei paesi. Quanto all’isolamento all’Onu, suvvia, la Russia è membro permanente del Consiglio di sicurezza».
Nonostante il consistente successo dell’iniziativa americana che è riuscita ad allineare più o meno tutta l’Europa, Suslov non esagera nello spiegare come la leadership mondiale di Washington fuori dall’Occidente non sia così solida. Scelte puramente economiche non risolveranno tutti i problemi in campo, ci vorrebbe un po’ di politica.

Su Formiche Silvia Bosco scrive: «Proponendosi come mediatrice, la Cina potrebbe uscire dal difficile dilemma diplomatico in cui si trova, viste le ripercussioni che l’invasione russa dell’Ucraina potrebbe avere su Taiwan e sulle spinte che Pechino definisce “secessioniste”. Far incontrare le parti (a Minsk?) e trovare una soluzione alla guerra escludendo l’Occidente sarebbe un grande successo diplomatico per Pechino. Il tema a questo punto diventerebbe ancor più evidente, specie se la Russia decidesse di rifiutare ogni forma di mediazione occidentale: lo scontro tra modelli – democrazia contro autocrazia – che è l’elemento che più avvicina Mosca e Pechino”».
Continuando a sostituire l’analisi con la retorica e la propaganda si perdono di vista le questioni strategiche come quella essenziale del contenimento dell’egemonismo cinese, tendenza ben più strutturata del pur pericoloso ma disperato, e senza adeguate risorse strategiche, imperialismo putiniano.

Su Dagospia si riprende da tag43 un articolo nel quale si scrive: «Oltre a Renzi e Aho, sono molti gli ex politici e funzionari europei che hanno legami con le compagnie russe. Su tutti, l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder, che siede nel cda di Rosneft, società petrolifera statale russa, ed è presidente del Comitato degli azionisti di Nordstream AG, la società che gestisce il gasdotto sotto il Baltico. A far compagnia a Schröder nel consiglio di Rosneft ci sono ora anche altri personaggi di primo piano, dal compatriota Matthias Warnig all’americano Robert Dudley, dallo svizzero Hans Georg Rudloff ai due rappresentanti del Qatar, Faisal Alsuwaidi e Hamad Rashid Al Mohannadi».
L’ipocrisia della stampa mainstream italiana si misura da come da una parte corre dietro ad affermazioni, come spesso gli capita scomposte, di Matteo Salvini, ma dall’altra non si azzarda a indignarsi sul fatto che la Spd, il partito dell’attuale cancelliere Olaf Scholz, non abbia preso radicalmente le distanze da Schröder, presidente della Rosneft e insieme ancora influente personalità della socialdemocrazia tedesca.

Sul Blog di Beppe Grillo l’articolo di apertura – riportiamo il titolo – è dedicato a “L’odissea della diagnosi”. Nei giorni precedenti, quando è iniziata l’invasione russa, gli articoli centrali sono stati dedicati a “L’eolico galleggiante anticicloni” e a “Il gene che ha reso speciale il nostro cervello”. Subito prima della crisi ucraina, c’erano stati alcuni articoli più politici: uno sul fatto che le Olimpiadi dimostravano come la Cina sia il vero pilastro della pace mondiale, un altro contro l’egemonismo americano in Europa e un terzo sulla scarsa fondatezza delle ragioni di un’identità ucraina. Arrivata la “crisi” non si è parlato più di politica.
Non è inutile ricordare come Grillo sia quello che garantisce ancora la carriera politica di Luigi Di Maio e Giuseppe Conte. E il problema sarebbe Salvini.

Tags: Beppe Grillocrisi ucrainagerhard schroederGermaniajoe bidenMovimento 5 StellenatoOlaf ScholzRussiaUcrainaUSAvladimir putinVolodymyr Zelensky
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