Come vivono i cristiani oggi in Libano
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Per il suo omonimo, che è capo dello Stato, ha molto rispetto: «È una persona forte e onesta, toccherà a lui fare la sintesi dopo le elezioni e guidare quel cambiamento di mentalità che solo può permettere di sconfiggere la corruzione in Libano», dice. Ma il Michel Aoun nato a Damour nel 1959 è vescovo maronita dell’eparchia di Jbeil, dove si trova la storica città di Byblos, che ospita i resti del più antico porto marittimo che si conosca. Nel territorio corrispondente alla diocesi i cristiani sono oltre 160 mila. Aoun è venuto in Italia in compagnia del rettore e di alcuni seminaristi del Seminario Internazionale Interrituale Redemptoris Mater di Beirut, che prepara sacerdoti secondo la spiritualità del Cammino Neocatecumenale. Insieme al rettore padre Guillaume Bruté de Rémur ha incontrato sabato 5 maggio papa Francesco a Roma e ha partecipato il giorno dopo a Milano al Convegno «Marhaba – Dio è amore», organizzato in collaborazione con la Fondazione ambrosiana San Marco e appoggiato dalla comunità dei cristiani maroniti di Milano. Lo abbiamo incontrato lì, proprio nel giorno in cui in Libano per la prima volta dopo nove anni di aggiornamenti e rinvii gli elettori si recavano alle urne per rinnovare il parlamento. Inevitabile che la prima domanda dell’intervista, concordata su temi riguardanti più strettamente la realtà della presenza cristiana in Libano, riguardasse l’evento politico in corso e ciò che da esso ci si doveva aspettare. «Ci sarà un rinnovamento con l’ingresso di volti nuovi in parlamento, ma non ci sarà un cambiamento profondo della scena politica libanese: i leader che contano resteranno gli stessi di prima. Per questo motivo la figura chiave della politica continuerà ad essere il presidente Aoun, e occorrerà avere fiducia nelle sue capacità e nel suo patriottismo, di cui ha già dato dimostrazione. È una persona che ha a cuore il bene del paese».
Eccellenza, negli ultimi anni la percentuale dei cristiani sul totale della popolazione libanese è diminuita. A cosa è dovuto questo fenomeno?
È un fenomeno iniziato poco prima della Guerra civile del 1975-1990, diventato importante negli anni della guerra e proseguito in forma più attenuata dopo il termine del conflitto. Alla fine della Seconda Guerra mondiale i cristiani nel Libano indipendente erano circa il 60 per cento della popolazione, come si evince anche dalla ripartizione dei seggi parlamentari, che a quel tempo era stata stabilita in 54 per i cristiani e 45 per i musulmani. Poi vennero gli accordi del Cairo del 1969, coi quali i profughi palestinesi insediati in Libano venivano autorizzati a portare le armi, avere basi militari e organizzare la guerriglia contro lo Stato d’Israele a partire dal territorio palestinese. Yasser Arafat lanciò uno slogan che ai cristiani fece venire i brividi: «La via per la Palestina passa per Jounieh». Jounieh è una città portuale che si trova a nord di Beirut, non a sud verso il confine con Israele… I cristiani cominciarono a creare le loro milizie. Poi fu la volta di Henry Kissinger, che lasciò trapelare il suo progetto di svuotare il Libano dei suoi abitanti cristiani, gente moderna in grado di ambientarsi in Occidente, per farne la patria sostitutiva dei palestinesi, che così non avrebbero più avuto ragioni per attaccare Israele. La guerra ha ridotto la presenza cristiana causando vittime nelle comunità e spingendo moltissimi all’espatrio. Io sono nativo di Damour, una cittadina di 20 mila abitanti tutti cristiani a sud di Beirut che è stata spazzata via dalle milizie palestinesi nel 1976: quasi 600 persone furono uccise, le altre si trasferirono a Jounieh o emigrarono in Europa, Canada, Australia: non sono più tornate. Anche molti musulmani libanesi sono emigrati, sebbene in numero minore dei cristiani, ma fra quelli che sono restati il tasso di natalità è più alto di quello prevalente fra i cristiani, e anche questo spiega la mutata proporzione fra le confessioni religiose nel totale della popolazione: oggi probabilmente i cristiani residenti costituiscono il 35-36 per cento di tutti i libanesi; in base all’accordo di Taif però hanno diritto al 50 per cento dei seggi parlamentari. Un altro fattore che ha alimentato l’emigrazione cristiana è rappresentato dalle politiche dei paesi occidentali in Medio Oriente, che sembrano pensate senza nessun riguardo per la presenza delle minoranze cristiane nella regione. Anzi, sembrano pensate per favorire l’esodo cristiano.
Il popolo libanese nel suo insieme è ancora un popolo religioso, oppure la secolarizzazione lo sta penetrando?
I libanesi sono più religiosi degli occidentali, non solo le moschee ma anche le chiese normalmente sono molto frequentate. Nell’uomo orientale il sentimento religioso è una cosa molto naturale. Il nostro compito consiste nell’aiutare le persone a non restare ferme in una fede puramente emozionale o abitudinaria, perché la si è ereditata dalla famiglia, ma a crescere in una fede matura e adulta, che non li lascerà nemmeno se saranno costretti ad emigrare. L’attuale situazione si può definire accettabile, ma bisogna lavorare molto per una nuova evangelizzazione per evitare un declino.
Qual è la principale preoccupazione della Chiesa oggi rispetto al Libano nel suo insieme e rispetto alle comunità cristiane in particolare?
La nostra principale preoccupazione è arrestare l’emigrazione dei cristiani. Le famiglie resistono, sperano in cambiamenti di segno favorevole, ma poi sono prese dalla paura davanti alle circostanze ostili: nel paese vivono ormai un milione e mezzo di profughi siriani e mezzo milione di palestinesi, il 95 per cento di loro sono musulmani e la prospettiva che tornino nei loro paesi di origine è ogni giorno più remota. A causa del fatto che ormai in Libano una persona su 4 è un profugo disposto a tutto per alleviare la propria condizione precaria, anche a lavorare senza rispettare le regole, i salari sono diminuiti e il tasso di disoccupazione è aumentato. Tutto questo spinge i cristiani a emigrare.
Qualche mese fa il patriarca maronita Bechara Rai ha incontrato il re dell’Arabia Saudita e il principe ereditario Mohamed Bin Salman: per la prima volta un patriarca cristiano ricevuto da un monarca wahabita. Questo fatto potrà portare cambiamenti nei rapporti fra musulmani e cristiani nel mondo arabo?
Lo speriamo. E siamo certi che ogni apertura darà frutti a suo tempo. È vero che in Libano c’è stata una guerra civile a sfondo religioso che ha causato decine di migliaia di morti, ma anche in quei giorni terribili cristiani e musulmani hanno dimostrato di saper trovare la strada della convivenza. In quella che oggi è la diocesi che la Chiesa mi ha affidato, Jbeil, nel 1975 al momento dello scoppio della guerra civile i notabili cristiani e quelli musulmani si incontrarono e strinsero un patto: nelle aree dove i cristiani erano in maggioranza avrebbero protetto le comunità musulmane perché nessuno le attaccasse, e viceversa nelle aree a maggioranza musulmana. Quel patto ha retto per tutta la durata della guerra. Con tutti i suoi problemi, il Libano ha fatto esperienze di democrazia e di libertà che gli altri paesi arabi non hanno fino a questo momento conosciuto. In Arabia Saudita non esiste nemmeno una chiesa, non è ammessa nessuna forma di pluralismo religioso: ora possiamo sperare che questo cambi. Non bisogna avere paura di permettere agli uomini di pregare come desiderano: la preghiera avvicina a Dio e avvicina le persone fra di loro.
Torniamo infine alla questione politica. Il sistema libanese è basato sull’equilibrio confessionale garantito da partiti confessionali. Lei pensa che è giusto così o che bisogna andare verso partiti aconfessionali?
Ai libanesi cristiani non dispiacerebbe affatto una democrazia all’europea, un sistema basato su una laicità positiva, cioè non antireligiosa ma fondata sul principio che la legge è uguale per tutti e i cristiani e i musulmani rispettano diritti e doveri uguali per tutti. Però ci sono due grossi ostacoli. Il primo è che i musulmani sono molto attaccati alla loro legge, la sharia, e quindi non vedono di buon occhio la laicità. Il secondo è che i cristiani, di fronte a un trend demografico che vede il costante aumento della percentuale della popolazione musulmana, si sentono più garantiti da un sistema basato esplicitamente sull’equilibrio confessionale.
Foto Ansa
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