
Come restare uomini in 70 anni di un isolamento in cui niente andrà bene

Cronache dalla quarantena / 9
In questo paesino arrampicato sulle colline della Gallura non è così tanto normale seguire la Messa su Facebook. Troppe nonnine non sanno neanche di cosa stiamo parlando. E così il sacerdote dice Messa itinerante attaccato al megafono, come fosse un arrotino che chiama la massaia ad affilare i coltelli da cucina.
È la più grande crisi del dopoguerra, ha detto il nostro premier Giuseppe Conte, siamo stati scassinati dalla cassaforte di abitudini e immaginazioni perimetrate da una ragione che era diventata palazzo senza finestre, come diceva papa Ratzinger al Bundestag, parlamento di Germania. E come gioielli ricettati, siamo stati scagliati agli arresti domiciliari per ordine di ordinanze a loro volta ordinate dall’incessante perpetuarsi del nanokiller che si tuffa nelle carni polmonari. E si moltiplica trascinando le vittime in profondità, fino ad annegarle.
È la più grande crisi del dopoguerra. Vero. Una cosa inimmaginabile per le generazioni che da settant’anni vivevano di pace e benessere. Ma possiamo immedesimarci per un attimo negli uomini e donne di primo Novecento? I nati in quegli anni li sono arrivati all’anticamera della nostra epoca di pace e boom economico, suppergiù che avevano 50 anni. Ma quanti dei nati nel primo Novecento ci sono davvero arrivati agli anni Cinquanta del Novecento? Quanti hanno salvato la pelle dalla prima Grande Guerra, dall’epidemia della spagnola e poi dalla fame e, infine, dalla Seconda Guerra mondiale?
È la più grande crisi del dopoguerra la nostra del nanokiller. Certo. Ci spinge a forza ad assaggiare i patimenti delle generazioni che ci hanno preceduto. Lo ricordavamo l’altra sera incontrandoci via Zoom noi qui della collina con loro, universitari a Padova, curiosi di una mostra del Meeting che aveva iniziato a girare l’Italia e ha come protagonista Vaclav Havel, anima della dissidenza intellettuale nell’Est europeo durante i settant’anni della cortina di ferro. E infine presidente della Cecoslovacchia prima, e poi – concedendo amabilmente e senza demagogia nazionalista il distacco alla Slovacchia – della sola Cechia.
Avendo avuto la fortuna di conoscerlo tramite il suo Potere dei senza potere, anno 1978, in università, nell’anno in cui le Br uccidevano Aldo Moro e la sua scorta, e poi dal vivo, a Praga bella fine ’89 della “rivoluzione di velluto” in cui finisce il totalitarismo a Praga e da Varsavia a Vladivostok, i ragazzi interrogano il sottoscritto. Ma di essenziale ho da dire che devo solo ringraziare Comunione e Liberazione di don Luigi Giussani, che fin dal suo sorgere in Gs portava con sé e viveva la memoria dei sepolti vivi oltre cortina. Mentre tutt’intorno, in Italia, come ovunque in Occidente, i Solzenicyn, Galanskov e, appunto, gli Havel erano dei dimenticati. O come in Italia, “fascisti”.
Parentesi: perché in questa provincia del mondo disposta a mitizzare l’ultimo importante segretario del Pci, Enrico Berlinguer, come una sorta di santo laico, è ancora oggi di moda la squalifica di “fascista”, per non parlare dell’Anpi, altro “tappo” a ogni memoria storica veritiera? Perché nell’Italia la scuola e le università statali non hanno mai e dico mai aperto il libro nero delle centinaia di milioni di morti e di sofferenti dell’Est europeo. Essi giacciono idealmente insepolti sotto i ghiacci della Kolyma. E le loro vite, le loro immense produzioni filosofiche e letterarie che valgono settanta volte sette i nostri Gramsci e Calvino, ad oggi, anno 2020, restano sconosciute perché le varie Anpi, la sinistra (ma anche la destra) ha semplicemente rifiutato di guardare in faccia la vita che veniva dall’Est.
Noi invece, grazie al Giuss, abbiamo avuto il dono di frequentare quella vita già dagli anni Settanta. Il dono di sentire la definitività, dignità e libertà di uomini che, racconta Havel, vado a memoria, anche quando si era al consueto interrogatorio al commissariato di polizia – perché in Cecoslovacchia il 50 per cento della popolazione faceva il delatore, vale a dire il vicino di pianerottolo – era un’anticamera straordinaria se per caso incrociavi Patocka. Altro dissidente, filosofo, che «conversava di Platone, lì aspettando l’interrogatorio di polizia, come se fosse la cosa più naturale che ci fosse».
Già, perché quella gente che non ha vissuto di indignazione e di buona coscienza, ha fatto tutta la vita ai margini del potere, lavorando da spazzino piuttosto che da ascensorista, non ha vinto nessun #metoo e niente gli è andato #tuttoandrabene. Ma ha vissuto incontro al tempo e all’universo l’entusiasmante avventura della libertà. Anche quando – ed è accaduto ai più – ha trascorso la vita in una miserabile povertà e isolato in una stanza, isolato in un condominio, isolato in una galera.
Perciò io oggi voglio pregare con la preghiera dei vent’anni di Flannery O’Connor, la più grande scrittrice americana del secolo scorso, morta a 39 anni di una sorta di coronavirus (lo chiamavano Lupus Herimatosus allora), che al tempo della cortina di ferro era certamente uno dei pochi intellettuali di questa parte del mondo che poteva capire un Pasternak o un Grossman.
«Caro Dio, stasera non è una delusione perché mi hai dato una storia. Non farmi nemmeno pensare, caro Dio, che io non sia altro fuorché lo strumento della Tua storia – proprio come la macchina da scrivere lo è per me».
Proprio come lo è questa tastiera di iPhone.
Foto Ansa
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