Non si può combattere la siccità senza mettere mano alla rete idrica

Di Gianluca Salmaso
27 Giugno 2022
L'emergenza idrica, la frenesia di chi invoca soluzioni costose, le politiche necessarie per essere pronti la prossima volta. Intervista all'esperto Antonio Massarutto
siccità rete idrica

siccità rete idrica

Con le immagini del Po in secca che riempiono le pagine dei giornali e decine di minuti dei telegiornali, la siccità che accompagna l’Italia da diversi mesi è riuscita a ritagliarsi uno spazio fra le altre notizie della stagione. Fra una guerra e una crisi economica, insomma, di questi tempi anche la paura di restare al caldo e all’asciutto ancora per un paio di mesi non è certo trascurata.

«La siccità è un fenomeno idraulico»

A mancare sono state tanto le piogge quanto le nevicate che non hanno contribuito a riempire i grandi laghi e gli invasi in previsione di una stagione estiva che, come spesso accade, è avara di precipitazioni. Abbiamo chiesto al professor Antonio Massarutto, docente di Scienza delle finanze all’Università di Udine, in che modo la nostra rete idrica stia affrontando la situazione e se regga alla prova.

«Le emergenze idriche in Italia hanno effetti prevalentemente sull’agricoltura e molto raramente e in modo più circoscritto sul servizio pubblico», spiega Massarutto a Tempi, «la siccità è un fenomeno idraulico, c’è meno acqua del solito e questo determina il modo in cui impatta sugli usi dell’acqua, sul sistema di gestione e su com’è costruito. Noi in Italia, abituati ad avere da sempre tantissima acqua a buon mercato e disponibile localmente: abbiamo costituito nel tempo un sistema molto frammentato che aveva e continua ad avere senso in una situazione normale».

Il valore dell’acqua

C’è una differenza sostanziale fra l’acqua che beviamo e quella usata per irrigare i campi, insomma, e non dobbiamo cadere nell’equivoco che, se per irrigare l’orto attacchiamo la canna al rubinetto, così facciano anche i contadini su larga scala. Le acque superficiali, come quelle dei fossi e dei canali, non riforniscono gli acquedotti semmai attingono in casi particolari ai reflui depurati.

«L’Italia è un paese mediamente ricco d’acqua, bastava scavare un canale perché l’acqua ci andasse dentro da sola, e ha una ricca tradizione di agricoltura irrigua», continua il professore, «questo tipo di agricoltura crea un valore aggiunto limitato ma sufficiente a ripagare un’acqua che costa poco. Nel momento in cui devo valutare se realizzare invasi o sistemi di modernizzazione delle reti irrigue devo mettere in conto il valore che l’acqua ha quando raggiunge il campo: molti di questi interventi non si reggerebbero se non ci fosse denaro pubblico a pagarli».

Il ragionamento strutturale da fare per combattere la siccità

Il rischio, insomma, può non valere la candela: «Non dobbiamo farci prendere dalla frenesia per cui, non appena c’è un anno più secco degli altri, dobbiamo di mettere mano a un sistema di potenziamento dell’offerta che ha costi economici elevati». Piani che prevedono la creazione di decine, centinaia di laghetti o altre infrastrutture potrebbero quindi non essere così risolutivi.

«Andrebbe fatto un ragionamento più strutturale e di lungo periodo, andando semmai a capire con quale frequenza ci aspettiamo annate come quella di quest’anno. Se situazioni come questa dovessero diventare endemiche, dovremmo ragionare su come potenziare l’offerta ma anche su come cambiare il nostro modello irriguo. Spendere miliardi per irrigare colture a basso valore aggiunto non avrebbe senso».

Investire sui dissalatori

Una valutazione anche economica è indispensabile perché il rischio concreto è di sbagliare tanto l’approccio quanto la soluzione: un conto è superare l’emergenza del momento, quando possono tornare utili anche misure draconiane per tagliare i consumi, un conto è immaginare un sistema in ragione degli obiettivi che si vogliono perseguire, della direzione che tutta una filiera intende prendere.

«Se l’anno secco viene una volta ogni vent’anni, ha comunque senso fare un’agricoltura irrigua e vulnerabile», conclude Antonio Massarutto. «Diciannove anni buoni sono più che sufficienti a compensare un anno cattivo, se invece che ogni 20 anni diventa ogni 3 allora il discorso cambia. E più che alle dighe per fermare la risalita del cuneo salino, penserei ai dissalatori: costano poco da realizzare ma con elevati costi di gestione che si giustificano in quei pochi periodi dell’anno in cui la siccità è un problema. Viceversa una diga comporta investimenti e costi di manutenzione colossali a prescindere dal fatto che quell’acqua serva o meno».

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.