Clima, il governo risponda all’eco-ansia col pragmatismo

Di Andrea Venanzoni
03 Agosto 2023
Rispedire al mittente lacrime e toni apocalittici e non assecondare i cantori del “fate presto”. La transizione si può guidare con idee, lavoro e tempo, anche senza piegarsi al massimalismo green degli obiettivi euro-unitari
Meloni Pichetto Fratin Ambiente Clima
Il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, sui banchi del governo alla Camera con il ministro dell'Ambiente Gilberto Pichetto Fratin (foto Ansa)

La ruggine invade il panorama, fin dove l’occhio riesce a seguire la linea dei capannoni. È il grigiore del progresso, dicono, mentre in questa serpentina scia di territori e città dipanate tra Northeast e Midwest degli Stati Uniti per decenni la vita umana è come evaporata. La cintura della ruggine, l’hanno definita, con uno slancio poetico ma tremendo nello stabilire quasi entomologicamente la decrepitudine di industrie, fabbriche, tessuto sociale, città ed esistenze umane.

La drammatica transizione della Rust Belt americana

Quello che un tempo era stato il fiore all’occhiello dell’economia americana, il motore visibile e rombante dell’industria, è divenuto vittima privilegiata della transizione verso un nuovo sistema economico: quello dell’economia finanziaria e dematerializzata e della società dell’informazione.

Incapacità di trasformazione e di riadattamento dei plessi produttivi, stasi del personale assunto, non riqualificato né formato, hanno prodotto un tracollo senza pari dai tempi della Grande Depressione.

Francis Fukuyama l’ha descritta come The Great Disruption, ed è certo che se gli anni Trenta del XX secolo ebbero come loro cantore John Steinbeck, la stessa Rust Belt, epopea di miseria e decadenza, ha ispirato una vasta platea di autori, dal J. D. Vance della cupa Elegia americana al non meno crudamente disperato Ruggine americana di Philipp Meyer.

La storia di sofferenza, scomparsa e dolore della Rust Belt ha coinvolto centinaia di città, migliaia di famiglie, ed è la storia di una transizione feroce e priva di alcun senso di gradualità, un precedente empirico, drammaticamente fattuale di cosa accade quando politiche pubbliche e policy aziendali private miopi, incapaci di prevedere, comprendere e guidare, attuano scelte drastiche.

Non è un’impostazione massimalista che salverà il clima

Certo, potrebbe dirsi che si tratta di una devastazione patrocinata in questo caso soprattutto dal cambiamento di paradigma economico di cui la sfera pubblica fu in parte spettatrice, mentre nelle politiche green gli Stati e le organizzazioni sovranazionali sono attori diretti.

Ma questo rende il quadro ancora più fosco se si sceglie di aderire, in tema di transizione ecologica, ad una impostazione non gradualista e assolutamente massimalista.

Il dibattito su cause, soluzioni, scelte di policy in tema green, come usa dirsi, ferve. Si ammanta anche di canoni di larvata ideologizzazione, soprattutto per la morsa che sembra stringersi addosso il governo italiano accusato, spesso assai strumentalmente, di abbracciare una visione addirittura negazionista. La segretaria del Pd, Elly Schlein, lo ha ribadito pochi giorni fa in Parlamento.

Ma fuori dalle usuali e strumentali schermaglie di dialettica politica, la scelta di una impostazione da parte del governo è essenziale e di certo non può limitarsi ad assecondare i trend di opinione pubblica. Il rischio in caso contrario è di subire la transizione e di assecondare i cantori del “fare presto, a qualunque costo”.

Gli errori politici della destra in tema ambientale

Sulle pagine di Domani, Lorenzo Castellani in un suo editoriale ha sottolineato gli errori politici della destra in tema ambientale, rimarcando l’esigenza di proporre una agenda politica che passando per ricerca e innovazione, anche infrastrutturale, in prospettiva market-oriented, stimoli una crescita e una sensibilità entrambe orientate alla sostenibilità ambientale.

Gli ha risposto pochi giorni dopo sulle pagine sempre di Domani Francesco Giubilei, il quale oltre a rivendicare la sensibilità conservatrice in tema ecologico e ambientale ha sottolineato la necessità di una gradualità nella adozione delle misure al fine di evitare di lasciare indietro strati di popolazione e soprattutto minare mortalmente il tessuto produttivo italiano.

E se è certamente vero che l’approccio al “verde” dovrebbe esulare del tutto da stantii ideologismi, figli assai spesso di una epoca che cerca semplicemente di sostituire il “rosso” con il “verde” mantenendo però inalterati gli schemi di odio e di lotta di classe, dobbiamo dirci la bruta e cruda realtà: l’opposto dell’ideologismo è il pragmatismo.

Pragmatismo impone contegno istituzionale che sia geometricamente impermeabile alle sirene, spesso isteriche, di un accelerazionismo ecologista che predica l’elisione totale di qualunque gradualità.

Catastrofismo, lacrime, toni apocalittici devono essere banditi e soprattutto rispediti al mittente, perché se si sceglie di stare con quelle lacrime si finirà per far versare lacrime di sangue alle vittime della transizione, producendo un panorama di inferno composto da famiglie sul lastrico, lavoratori licenziati, economia ferita a morte, ovvero una Rust Belt italiana.

Il pragmatismo anticatastrofista che serve a Meloni sul clima

In secondo luogo, il pragmatismo implica e impone un lavoro continuo, accurato, chirurgico, di semplificazioni e di scelte, magari non gradite alla presunta opinione pubblica ma da analizzare e studiare con grande cura, come nel caso della energia nucleare. Si sta seriamente studiando una ipotesi di ritorno al nucleare? In quali tempi, e in quali modi? Oppure dobbiamo prendere atto che si trattava di argomenti estivi da dare in pasto ai lettori dei giornali, senza che dietro ci fosse alcuna sostanza?

Analogamente, l’ampio e non semplice lavoro di conversione di interi settori industriali, e di formazione, specializzazione, riqualificazione del personale, ha delle tempistiche semplicemente non compatibili con certi obiettivi euro-unitari figli di un certo massimalismo green. Seguire il massimalismo significa condannare alla miseria decine di migliaia di famiglie.

In terzo luogo, esiste un serio problema di scrutinio e di coordinamento nell’azione di un governo i cui ministri spesso sembrano parlare lingue diverse. Questa cacofonia agevola, senza dubbio alcuno, gli alfieri dell’apocalisse ambientale ed elide in radice la possibilità di una discussione davvero nel merito: e la discussione nel merito consiste nello stabilire la centralità del costo sociale ed economico della transizione, che non può e non deve essere ignorato.

Le conseguenze del pragmatismo a livello internazionale

In quarto luogo, il pragmatismo significa circondarsi di alti burocrati capaci e fedeli che a testa bassa coadiuvino l’azione amministrativa, cercando di colmare il gap di decreti attuativi che vede il ministero dell’Ambiente languire in posizione critica. Una posizione ereditata dal “governo dei migliori”, ma che avrebbe meritato di essere resa nota ai mass media per far comprendere come poi, in fondo, non tutti fossero “migliori”…

In quinto luogo, a livello di politica internazionale, è inutile immolarsi sull’altare dell’ambientalismo radicale se poi non si adotta fermezza nei confronti di quei paesi come India e Cina che rivestono un peso oggettivamente sostanziale in politiche industriali inquinanti e dipendenti dal carbone. D’altronde se si accetta la vulgata per cui l’azione umana e determinate politiche energetiche e industriali influiscono drammaticamente su clima e ambiente, bisogna che ciò valga per tutti.

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