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Caso Yara, «ecco perché il dna potrebbe non bastare come prova»

Spigarelli, presidente dei penalisti italiani: «Andrei cauto nell'idolatrare la prova del dna. Anche quella dei telefonini è una prova imprecisa. Il giudizio immediato toglie garanzie all'indagato»

Chiara Rizzo
23/06/2014 - 17:01
Interni
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Conferenza stampa del pm Letizia Ruggeri

«La ricerca scientifica dimostra che ciò che riteniamo sicuro, qualche anno dopo viene revocato in dubbio. Quindi andrei cauto nell’idolatrare la prova del dna»: così il presidente dell’Unione camere penali, avvocato Valerio Spigarelli, in un’intervista al Messaggero che ricostruisce dubbi e incertezze dell’inchiesta sul caso Yara.

3 SOSPETTATI SU UN MILIONE. Nell’intervista Spigarelli esemplifica perché, dal punto di vista penale, nemmeno il dna può essere un “sancta sanctorum” delle prove, inviolabile: «Il 99,9 per cento (la percentuale di corrispondenza tra il sangue ritrovato sugli indumenti di Yara e il campione prelevato a Massimo Bossetti, ndr) su un milione di persone fa tre. In una città di un milione di abitanti sarebbero tre a poter essere accusati dello stesso delitto. Servono altre prove».

TABULATI INSUFFICIENTI. Nelle indagini per Yara fin dall’inizio grande importanza oltre al dna è stata data anche al controllo delle celle telefoniche e delle utenze che vi si sono agganciate il giorno e nell’ora del delitto. Per Spigarelli questa dei telefonini è un tipo di prova «che tiene banco sempre di più, ma è imprecisa. Se la cella della vittima è la stessa della casa del sospettato (come avvenuto nel caso di Bossetti, ndr), non provi nulla». Senza dubbio invece per Spigarelli «un alibi falso è una prova. Ma io non ricorderei dove stavo cinque anni fa. Se non ho la prova della mia innocenza, non per questo devo essere condannato. È l’accusa a dover provare che sono colpevole».

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«IL GIUDIZIO IMMEDIATO, ALTRO PARADOSSO». Invece, nel caso di Bossetti, accade che l‘accusa tre giorni dopo il fermo, poi trasformato in custodia cautelare, annunci di meditare di andare a giudizio immediato, il rito processuale speciale usato davanti all’evidenza della prova di colpevolezza di un indagato (si salta l’udienza preliminare, andando direttamente in aula). Per Spigarelli è un «altro paradosso e stortura del sistema da eliminare. L’accusa indaga per anni, pensa di avere la prova, ti mette in galera, fa il giudizio immediato. Ma che giudizio immediato è dopo tre anni? È solo un modo per privare l’imputato dell’udienza preliminare, cioè di un po’ di garanzie. Mi chiedo: quando si è cominciato ad indagare su questa persona senza iscriverla nel registro degli indagati?».
Riguardo alle conferenze stampa convocate dagli inquirenti (quattro in quattro giorni, se si considera anche il comunicato del ministro degli Interni Angelino Alfano), Spigarelli vede «una spettacolarizzazione della giustizia a cui ormai ci siamo abituati. Noi avvocati siamo contrari a queste forme di informazione unilaterale degli investigatori o delle procure. A decine di conferenze stampa trionfalistiche è seguita nel tempo l’assoluzione degli imputati, da Scaglia a Tortora, passando per Serena Grandi. Andrebbero pure evitate le sfilate di individui in ceppi, davanti a questure e caserme».

Tags: angelino alfanobergamoBossettidnaprocuraYara
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