Da parecchi mesi assistiamo a una campagna mediatica lanciata in grande stile sotto il titolo “Questo mondo non è in vendita”, orientata a fermare i lavori per la liberalizzazione del commercio di servizi a livello mondiale all’interno della Wto (World Trade Organization, Organizzazione Mondiale del Commercio, ndr).
I no global non guardano la verità in faccia
La Quinta Conferenza Ministeriale della Wto, nel quadro del Programma di Doha (novembre 2001) per lo sviluppo, fra tanti altri punti si propone di procedere a una liberalizzazione del commercio dei servizi fra gli Stati membri. Più di cento organizzazioni No global di tutto il mondo hanno lanciato una campagna allarmista tenendo convegni, incontri, pubblicando volantini e schede informative così da richiamare l’attenzione della società civile internazionale sul fatto che tutti i servizi essenziali – l’acqua, l’educazione, la sanità, l’energia, i trasporti, ecc – dei paesi in via di sviluppo verranno privatizzati. «Non lasciare che la Wto si appropri della vostra acqua» recita, ad esempio, uno dei volantini. «La liberalizzazione implica camminare verso la privatizzazione di tutti i servizi, compresi quelli pubblici. Questo suppone anche la deregolamentazione dei servizi sul piano locale, statale e nazionale per sottometterli alla Wto in beneficio delle imprese multinazionali». In realtà, l’Accordo Generale per il Commercio dei Servizi (Agcs) della Wto, non impone la privatizzazione né la liberalizzazione di nessun servizio. Per quelli pubblici come la distribuzione dell’acqua, l’educazione o la sanità, tutti gli Stati membri possono scegliere fra le seguenti possibilità; 1) trattenere il servizio in regime di monopolio, pubblico o privato; 2) aprire il settore ad altri fornitori nazionali; 3) aprire l’accesso al servizio ai fornitori nazionali e stranieri con o senza un impegno verso la Wto. Per cui, i servizi pubblici quasi mai sono stati oggetto di una negoziazione nell’Agcs. Nessun paese ha manifestato il desiderio di procedere ad una liberalizzazione dell’accesso ai settori dell’acqua o della sanità, e soltanto quattro paesi sviluppati – gli Stati Uniti, il Giappone, l’Australia e la Nuova Zelanda – hanno proposto di negoziare l’apertura dell’accesso ai loro servizi di educazione. Dunque, le affermazioni dei No global su privatizzazione e svendita dei servizi pubblici sono una semplice menzogna a scopo ideologico.
La grande novità del partenariato pubblico-privato
Nel caso di altri servizi nei settori dell’audio-video, dell’informatica, di costruzione ed ingegneria, distribuzione, energia, ambiente, dei servizi finanziari e postali, del turismo, delle telecomunicazioni e dei trasporti, certi Paesi in via di sviluppo sono fortemente interessati a una liberalizzazione, cominciando anch’essi a far parte della concorrenza. Infatti, sono gli stessi Paesi in via di sviluppo a sostenere le proposte di apertura e di partenariato pubblico-privato così da favorire gli investimenti ed i trasferimenti di tecnologia, un miglioramento delle condizioni sanitarie e di cura dell’ambiente, ecc. (Cfr. Comunicazione S/CSS/W/ 121 della Colombia nel settore del Ambiente, S/CSS/W/69 del Venezuela nel settore della energia, ecc.). D’altra parte, tanti di questi paesi in via di sviluppo vantano già una lunga esperienza di partenariato pubblico-privato nei settori dell’ambiente, dell’energia, degli impianti igienici, dei residui, della fornitura dell’acqua, come testimoniano tante best practices realizzate tramite l’Unione europea, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp) o altre istituzioni. Nel 1994, per esempio, seguendo le raccomandazioni del Rio Earth Summit sulla collaborazione pubblico-privata, l’Undp inaugura una nuova linea di promozione dello sviluppo basata su un partenariato tripartito: Amministrazioni Pubbliche (a qualunque livello di decentralizzazione), imprese e società civile (Onlus, Centri di ricerca…). Il regime di proprietà rimane pubblico ma la produzione e/o gestione del servizio è erogata da enti privati (for profit e non profit), riuscendo così a migliorare la fornitura del servizio, incrementare l’efficacia e l’efficienza dello stesso e ad accrescere abilità (skills) e responsabilità della società civile. Questi partenariati pubblici-privati (Ppp) non sono affatto esclusivi dei Paesi in via di sviluppo. Negli Stati membri dell’Unione europea sono una forma sempre più diffusa di erogazione dei servizi pubblici. Nel nuovo contesto della globalizzazione, sembra che i governi e le organizzazioni internazionali avvertano di dover trovare una più efficace linea di azione nella ricerca di nuove collaborazioni. «I governi sono soci (partner) delle imprese, dei lavoratori e della società civile per quel che concerne il funzionamento delle economie nazionali e dell’economia internazionale» afferma l’Ocse. Si avverte l’esigenza di chiarire la distinzione tra la funzione di regolazione che dà luogo con un atto giuridico formale alla nascita di diritti e doveri – funzione tipica della amministrazione pubblica – e la funzione di produzione, consistente nel trasformare un input in output, ovvero consistente in un processo puramente tecnico ed economico, che non deve subire restrizione indebita da parte della prima.
La pedagogia dei ppp
Se non si comprende come sia estremamente importante che l’amministrazione sia efficiente nella gestione delle risorse (e nel caso dei Paesi in via di sviluppo, come si diceva prima, anche nel miglioramento della qualità del servizio e nell’assimilazione di nuove abilità), quella si limiterà all’approvazione delle spese, senza preoccuparsi di raggiungere gli obiettivi fissati nei margini di costo stabiliti. Saranno allora i criteri amministrativi e legali a prendere il sopravvento su quelli di efficacia ed efficienza. Nel caso di servizi prodotti parallelamente dalla pubblica amministrazione e dalle imprese, utilizzando le seconde tecniche manageriali e le prime procedure puramente amministrative, si può facilmente osservare come in situazioni analoghe, i costi unitari di produzione siano maggiori nelle prime che nelle seconde. Per esempio, la fornitura di servizi di assistenza sanitaria – o dell’istruzione primaria, o di fornitura dell’acqua, e così via – non costituiscono affatto, propriamente parlando, un compito della pubblica amministrazione. Infatti, tanti Stati membri dell’Ue hanno aperto negli ultimi anni l’offerta di servizi finanziati pubblicamente alla concorrenza tra fornitori pubblici e privati (for profit e non profit). Salvaguardando completamente il finanziamento pubblico le amministrazioni stanno cominciando a realizzare un cambiamento dei sistemi di gestione che renda possibile la produzione di servizi pubblici da parte di agenti diversi dalle amministrazioni stesse, con miglioramento delle prestazioni e riduzione di costi (attraverso procedure di licitazione, concessioni amministrative o subappalti). Benché il loro potenziale non sia ancora pienamente sfruttato, i Ppp permettono di migliorare i modi attraverso cui la società risolve i propri problemi e soddisfa i propri bisogni collettivi. Secondo l’Ocse, «applicare una simile strategia deve permettere di coordinare meglio le politiche governative e di adattarle meglio alle condizioni locali, di ottenere una miglior utilizzazione dei programmi pubblici, essendo questi più calibrati, di tenere in grande conto, attraverso una maggiore democrazia partecipativa, le preoccupazioni della società civile nel lavoro di pianificazione degli interventi, di incitare le imprese a partecipare ai progetti locali e di accrescere la soddisfazione del pubblico nei confronti dello Stato (…). Una simile strategia è impregnata dell’idea secondo la quale sono i partner stessi ad essere il luogo migliore per apprendere cosa fare al fine di accrescere l’efficacia delle proprie azioni». Ultimamente, l’esistenza o meno dei Ppp – che non c’entrano in assoluto con la privatizzazione, come invece viene detto – pone il problema circa il tipo di soggetto che interessa fare crescere: se uno passivo e sussidiato dallo Stato, o uno responsabile, che cerca di aiutare a raggiungere il bene comune. Concepiti così, i Ppp diventano anche una pedagogia.
* Docente universitaria a Madrid e membro Cefass (Centro Europeo di Formazione per gli Affari Sociali e la Sanità Pubblica).