Il Deserto dei Tartari
Biotestamento: sono i Marino e gli Staderini a rubarci la morte
L’iter di approvazione della legge nota come “biotestamento” sta sollevando le prevedibili polemiche, che non arrivano ad occupare i titoli di apertura di giornali e telegiornali solo a causa della tempesta finanziaria che ha investito in questi giorni l’Italia: la gente è più preoccupata del pericolo che la sua vita vada in rovina, piuttosto che del dibattito sul fine-vita, che in questi giorni appare più che altro come un lusso.
Ovviamente la norma che ha dato la stura alle invettive più enfatiche è quella sul divieto di rinuncia all’idratazione e all’alimentazione naso-gastrica. La norma è stata definita “autoritaria” (Livia Turco), “violenta” (Nichi Vendola), “inaccettabile” (Ignazio Marino). Un commento però svetta su tutti gli altri per i presupposti culturali che rivela e per le prospettive che apre, quello del segretario dei Radicali Italiani Mario Staderini: «Ci rubano anche la morte», ha detto. Il presupposto logico di questa affermazione è che ogni singolo individuo, e la razza umana in generale, siano proprietari della morte. Punto di vista decisamente bizzarro: da secoli nell’immaginario umano la ladra è lei, la morte, e non chi le impedisce in un modo o nell’altro di infierire. Di un defunto si dice “è mancato all’affetto dei suoi cari”, e se manca vuol dire che qualcuno se l’è preso. La madre e il padre dicono di un figlio morto anzitempo: “Ce l’hanno portato via”, ed è sottintesa una sottrazione fraudolenta da parte di qualcuno.
Solo una mutazione antropologica prodotto della modernità può portare a concepire la morte come una cosa di cui ci si può contendere la proprietà e denunciare eventualmente il furto. All’alba della modernità non era così: fra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, a essere introdotta non è la reificazione, ma la personificazione della morte. Il villano di Boemia di Johannes von Tepl, dramma teatrale scritto all’inizio del Quattrocento, è una contesa verbale fra un vedovo e la Morte in persona, accusata dal primo di essere una “malfattrice” per aver stroncato la vita della sua donna, e nell’affresco della Danza macabra nella cinquecentesca chiesa di s. Virgilio a Pinzolo si legge: “Principi, Re, Imperatori e ommini Potenti, Sonte io che porta corona, Sonte signora di ognia persona”. Altro che ladra, o oggetto di proprietà di qualcuno: la Morte si presenta come Signora, regina e padrona delle vite degli uomini. Questo testo della Danza macabra fu poi adattato per una canzone di Angelo Branduardi che tutti ricordano, e che cominciava così: “Sono io la Morte, e porto corona; io son di tutti voi Signora e Padrona”.
Tuttavia il grido di protesta del villano di Boemia e la reificazione della morte nelle parole di uno Staderini appartengono allo stesso universo di pensiero, quello della modernità che rifiuta la morte come un male assoluto, da cui l’uomo dovrebbe potersi liberare. Alla fine è prevalsa la reificazione perché in questa forma la morte è stata meglio combattuta: la morte è stata ridotta a batterio, a virus, a degenerazione dei tessuti, e le si è strappato terreno con la medicina, le misure igieniche, il miglioramento delle condizioni materiali della vita. Grazie al progresso la durata media della vita è schizzata verso l’alto soprattutto nel corso del XX secolo. E si è fatta strada l’idea che infine l’uomo riuscirà ad avere ragione della morte attraverso le biotecnologie. Siccome però manca ancora tempo all’alba del giorno in cui la morte sarà definitivamente sconfitta dall’uomo, e nel frattempo essa ci affligge nello stesso modo penoso che faceva gridare di dolore e di rabbia il villano di Boemia, ecco che la volontà di controllo imbocca un’altra strada: non possiamo da subito sconfiggere la morte, possiamo però padroneggiarla in un altro modo, e cioè decidendo noi quand’è che vogliamo porre termine alla nostra vita. Possiamo già adesso prefigurare il futuro dominio dell’uomo sulla morte, allorchè l’uomo si sarà completamente sottratto alla sua presa: gli uomini vivranno tutto il tempo che vogliono, all’infinito se così desiderano, oppure si daranno di loro iniziativa la morte senza permettere alla morte di decidere al loro posto.
Staderini e gli altri avrebbero potuto obiettare alla legge in via di approvazione qualcosa del tipo: “Lasciate fare il suo corso alla natura, non interferite con tecnologie sanitarie sul corso della vita che sta sfociando nella morte”; e invece no, perché per loro nessuno può decidere il destino dell’uomo al posto dell’uomo, nemmeno la natura, nemmeno la morte stessa. Tutto deve esistere solo come il frutto di una scelta umana. In questo modo, però, i Marino e gli Staderini ci privano della possibilità di attingere al vero senso della vita e della morte. A rubarci la morte sono proprio loro. Facendo della morte l’oggetto di una decisione umana, reificandola, le strappano tutto il potenziale di rivelazione che essa potrebbe avere in serbo per noi.
Vita e morte non sono nè cose, nè persone: sono avvenimenti. Il potenziale di rivelazione di un avvenimento è proporzionale al rispetto che noi soggetti umani abbiamo della sua autonomia. Nel momento in cui lo trasformiamo in una cosa sottomessa al nostro controllo tendenzialmente totale, non può più dirci nulla. E i Marino e gli Staderini non se la caveranno dicendo che questo è un punto di vista confessionale, è una preoccupazione frutto di una posizione religiosa che tanti potrebbero non condividere. No, l’esigenza di permettere alla realtà, ai suoi avvenimenti di parlarci è universalmente umana. Sulla tomba di uno degli antenati ideologici di Mario Staderini, il repubblicano radicale Aurelio Saffi che fu triumviro della Repubblica Romana del 1849, è incisa nella pietra una scritta: MORS IANUA VITAE, “la morte è la porta della vita”. Anche l’anticlericale Saffi si aspettava dalla morte un dono di verità.
Invece nell’universo che i Marino e gli Staderini vogliono regalarci tutto è piatto e muto, perché tutto è ridotto a cosa sotto il pieno controllo della volontà umana. In un universo siffatto, dominano la noia e il senso di oppressione dovuto all’omologazione della realtà all’umana volontà di potenza. In un universo del genere, costruito per sfidare e vincere la morte, viene solo voglia di morire. E allora si rivendicano leggi che facilitino la cosa.
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