l nomadismo cromosomico che ha portato Giovanni Cominelli dalle sue valli contadine bergamasche al seminario, e di lì sui sentieri del parmenideo Severino, e poi ancora fra i tatsebao e le pistole della sinistra extraparlamentare, poi occhettiana, quindi riformista, dunque – esausto e disperso – ai soliloqui di Pannella, l’ha fatto poi pellegrinare fino sulle sponde del lago di Tiberiade e infine (infine?) davanti a un tabernacolo a pregare laicamente in dialetto: «Beacc quei ch’i ga fam e sit: perché i ghe la scödirà».
Il Foglio, quest’estate, ha pubblicato l’autobiografia – La caduta del vento leggero – di questo zingaro dello spirito che molto ha conosciuto, molto ha assaggiato, gustato, sputato e vomitato, sempre divorato da una fame e una sete che solo un raro senso della realtà (e un’inusuale e godibilissima ironia) ha preservato dal capolinea di molti suoi coetanei, quello stuolo di rivoluzionari con la faccia da impiegati e il portafoglio pieno delle utopie del passato.
Sarà una certa refrattarietà al luogo comune o la convinzione che – come sta scritto sul frontone della Camera di commercio di Erfurt – «ineuntes, exeuntes, peregrinamur in terris», è agli atti che Giovanni Cominelli poco ama stare tranquillo. Poteva rimanere quieto nel seminario dove in tenera età era stato mandato, se non fosse stato che per preservarlo dal mondo, del mondo il seminario lo aveva reso morbosamente curioso e affamato. Poteva tentare la via titanica dell’ubris parmenidea di Emanuele Severino («il Ray Bradbury dell’ontologia») che propugnava un indistinto «plasma orignario», se non avesse sentito come falso l’assunto per cui «tutto è equivalente e niente essenziale».
Poteva accontentarsi di vivere etsi deus non daretur in modo gaio e spensierato, sostituendo con uno sbadiglio beffardo il Tutto con il Niente, e invece gli rodeva addosso tutta la solitudine di Sisifo e il tragico destino di chi si sente condannato a essere una passione inutile, «un essere-per-la morte».
Avrebbe potuto anche accontentarsi del sogno del ’68, di quel «Mondo Nuovo che parlava come il vecchio», se non si fosse accorto del «gigantesco e drammatico abbaglio» di Capanna, Toni Negri e Scalzone, gente che ancora oggi ce lo spaccia come fresco, senza la minima remora di chi vive di novità imbalsamate. Avrebbe potuto finire – come accadde ai compagni che sbagliano – con la pistola in mano cercando di riscattare con la violenza quella che era stata la fede di una generazione così disillusa che, «caduta la speranza, aveva fatto crescere il nichilismo ribelle».
Avrebbe potuto ancora credere alla svolta occhettiana se non avesse mal digerito quell’odore di nicodeismo manettaro che dell’ala migliorista milanese fece – e non in senso metaforico – un cadavere buono da sbrandellare. Avrebbe potuto rimanere nel ministero della parola del clericale Pannella se non avesse di nuovo, guidato dai suoi adrenalinici cromosomi, capito che nemmeno quella era l’oasi per la sua sete.
E allora oggi, che in poco più di quarant’anni ha attraversato «tre universi di linguaggio: il cristianesimo radicale, il marxismo rivoluzionario, il socialismo liberale», Giovanni Cominelli ha deciso di tornare a casa. Forse l’unico posto dove quel Dio della giovinezza di cui più non sa il nome, attende che rincasi.
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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