

Cronache dalla quarantena / 54
Devo tornare sul tema carceri dopo che abbiamo saputo che il presidente dell’associazione palermitana dei magistrati, dottor Nino Di Matteo, pare volesse fare – o forse pare gli abbiano offerto di fare – il direttore del Dap. Cioè sedere al vertice della catena di comando che gestisce le carceri italiane.
Poi, però, è certo che non se n’è fatto nulla. Giungendo il Renzi e l’intero centrodestra che adesso chiedono le dimissioni dell’inquilino del dicastero di via Arenula, persino ad adombrare cose folli. Tipo che il ministro della Giustizia a cinque stelle, avvocato Bonafede Alfonso, potesse anche solo lontanissimamente adombrarsi e farsi condizionare da spifferi di pettegolezzi e intercettazioni secondo i quali i boss al 41 bis non avrebbero apprezzato la nomina del magistrato palermitano.
Naturalmente sono tutte congetture (dal siciliano: “minchiate”). I magistrati di Palermo mai si farebbero tirare in ballo per meschine ragioni di protagonismo. E mai il ministro Bonafede potrebbe essere adombrato di cazzare una benché minima sua vela col supporto di qualche galeotto spregiatamente mafioso. Però, uno si chiede: da quando in qua la direzione del Dap è diventata una poltrona tanto ambita quanto lo scranno presidenziale di Paribas? Perché si tengono così da conto i delinquenti?
Semplice. Perché, sia delinquente o no (ricordo che un terzo dei detenuti in Italia, circa 20 mila, non ha ancora una sentenza definitiva e che la metà di questi non ha neanche una sentenza in primo grado), ogni detenuto costa allo Stato qualcosa come 137 euro al giorno. Che moltiplicati per un arco di oscillazione compreso tra i 60 e i 70 mila detenuti, a seconda se il sovraffollamento delle carceri italiane è di stagione mite o bollente, ottieni un costo giornaliero complessivo per lo Stato, cioè per Pantalone, compreso tra gli 8 e i 10 milioni di euro. 300 milioni al mese. 3 miliardi e rotti l’anno. E questo perché per ogni detenuto sono impiegati almeno due lavoratori e tre sbobbe al giorno. Oltre agli indotti di edilizia, idraulica, infermeria, psichiatria, tossicodipendenza eccetera.
La polizia penitenziaria è composta da circa 40 mila unità. Quindi, sono già 40 mila posti di lavoro che senza la delinquenza andrebbero in fumo. Ma tra poliziotti e carabinieri che si occupano di arrestare e gestire i delinquenti (o presunti tali) nelle fasi di anticamera della galera, quanti altri posti di lavoro sono, visto che siamo il terzo paese più militarizzato al mondo?
Dunque il detenuto ce lo dobbiamo tenere da conto. Perché è una gallina dalle uova d’oro. Crea occupazione. E fa girare il denaro. Chi scrive non avrebbe dubbi a privatizzare anche questo comparto. La ragione l’avrete capita tutti. Più in un comparto è presente lo Stato, più, di riffa o di raffa, le mani si bucano. E anche i bilanci tendono al colabrodo. Purtroppo non sembra che di questi “buchi” ne godano gli utenti (nel nostro caso, i delinquenti). Bensì, i prestigiatori. Che come sapete, normalmente è gente dalle mani pulite. E piedini prensili.
Per togliere ogni alone di sospetto su ciò che traffica intorno al Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) bisognerebbe fare come fa l’America. Privatizzare le carceri. In America ci sono oltre un milione di detenuti. Un supermercato delle pene che non finisce mai. Il paese più contracezionario del mondo. Inoltre. «Three strikes and you are out». Fai tre cazzate in recidiva e anche se sono reati bagatellari hai finito di vivere. Rischi addirittura l’ergastolo. È la legge vigente in 24 stati americani. Dopo tre volte dello stesso reato (fosse pure il furto di una pizza) ti becchi il fine pena mai. E se va bene esci dopo cinquant’anni solo perché un testimone tardivo ha confessato in punto di morte “non voglio che un innocente crepi in galera, l’ho rubata io, confesso, era una quattrostagioni da schifo”.
Invece qui in Italia abbiamo un sistema perfettissimo in teoria (scherziamo? Le abbiamo inventate noi con Verri e Beccaria le carceri dal volto umano!). Poi in realtà, causa anche le vischiosità monetarie dette sopra, la pratica è molto diversa. Ogni tot ci condannano in Europa per violazione dei diritti umani. E anche se i Davigo’s non sono d’accordo, le carceri italiane non sono dei cinque stelle lusso Grillo. In America è vero, sono inflessibili. Vige il principio della certezza della pena fin troppo assoluto. Però, ragazzi, vogliamo paragonare l’America al nostrano tritacarne? Là, anche la pena di morte è più umana del nostro ergastolo ostativo di ogni beneficio. Più umana del 41 bis. Più umana di processi che tengono in croce a vita. Come quello a Mannino. O a Andreotti. O a chiunque gli abbiano chiuso un processo un giorno. E il giorno dopo gliene abbiano aperto un altro. Uguale. Solo con un nome un po’ più fantasioso.
Con sintesi discutibile ma efficace, il giudizio più moderato che il politologo americano Edward Luttwak ha dato ad Affari Italiani è che «in Italia non c’è giustizia. In Italia c’è addirittura la carcerazione preventiva. Da nessuna parte accadono cose così come in Italia. Forse in Corea del Nord».
Per questo in Italia i detenuti necessitano di una certa catena di attenzioni. E per fortuna noi a Milano abbiamo una tradizione di garanti dei detenuti veramente di livello. Avevamo fino a qualche tempo fa Alessandra Naldi. Che non per vantarmi, ma è stata una mia scolara al Liceo Cremona (un po’ di sinistra, ok, ma non si può pretendere una discepola senza neanche un difetto). E poi è arrivato il mitico Francesco Maisto. Magistrato che fin dai tempi di Tangentopoli, pur avendo il difetto di essere di sinistra, non è mai stato un manettaro. Anzi. Tempi gli fece una copertina. E perciò Maisto si è giocato la carriera. Inoltre a Milano, almeno nel comparto carceri, abbiamo una Cgil dal volto umano.
Infine, insieme al provveditore e ai direttori degli istituiti di pena, non si possono non citare, nel fronte degli illuminati lombardi che concorrono a rendere più umana la detenzione e a costruire percorsi di concreto reinserimento sociale, la camera penale, l’ordine degli avvocati e le diverse anime del terzo settore. Devo ammettere che anche se su tante cose la signora è un po’ così, Anita Pirovano sulle carceri si sta dimostrando di una tenacia e di tenuta indomita. Brava. Sto parlando della presidente di commissione, Comune Milano, dell’Osservatorio carceri. Capogruppo di Milano Progressista, già Sinistra e Libertà (l’arancione di Pisapia). Psicologa sociale. E mamma dell’arzillissima – e le auguro un giorno cattolicissima popolare – Viola.
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