Autonomia bye bye
Chiunque passeggi per una delle tante cittadine del Veneto e domandi a un normale cittadino cosa ne pensi dell’autonomia, non potrà non trovarsi di fronte a una qualche espressione facciale che varia tra il perplesso, l’arrabbiato e lo sconforto. Sono passati infatti quasi due anni dal 22 ottobre 2017, giorno in cui i veneti furono chiamati alle urne per esprimere la loro opinione sulla possibilità di concedere alla Regione «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia». L’esito fu inequivocabile: soltanto l’1,9 per cento degli elettori inserì nell’urna una risposta negativa. La quasi unanimità del risultato fu frutto non solo della convergenza sul “sì” dei principali partiti, ma anche dell’insopprimibile sete di federalismo che i veneti hanno da sempre avuto.
La possibilità di esprimersi su un tema così sentito fu vista da tutti come un’occasione imperdibile, considerata la lunga battaglia che le istituzioni regionali avevano dovuto affrontare per ottenere un referendum mai svoltosi prima in Italia.
Una lunga battaglia
Per capire la portata dell’evento bisogna partire dal 1991, anno in cui il Consiglio regionale approvò una proposta di legge per indire una consultazione finalizzata a chiedere che il Veneto diventasse Regione a statuto speciale. Il Governo di allora la impugnò e la Corte costituzionale rispedì al mittente il tutto perché il referendum «non può non esercitare la sua influenza sul procedimento di formazione della legge statale fino a condizionare scelte discrezionali affidate alla esclusiva competenza di organi centrali». Tutto sembrò arenarsi fino a quando la Regione, nel 1998, ripropose l’istanza, ma anche in questo caso fu dichiarata incostituzionale. Nel 2000 il Consiglio regionale riapprovò una terza legge regionale per istituire un referendum in merito alla presentazione di una proposta di legge costituzionale per il trasferimento al Veneto delle competenze statali della sanità, formazione professionale, istruzione, polizia locale. Il governo Amato propose l’impugnativa, ma il successivo esecutivo a guida Berlusconi ritirò il ricorso. Tuttavia non si tenne nessun referendum in quanto diverse materie di competenza statale vennero attribuite alle regioni a seguito della riforma del Titolo V. Quest’ultima fu dipinta come una revisione di impronta federalista, ma il grande sbaglio fu quello di istituire, accanto alle statali, competenze concorrenti fra Stato e Regione, dando il via a un’infinità di battaglie per precisare quale fosse il confine che separava l’ambito statale dal regionale.
Di fronte a un tale caos e tenendo in considerazione le posizioni della Consulta, i vertici regionali decisero di guardare alla Costituzione e scelsero di applicare l’articolo 116, che prevede l’apertura con il Governo di una trattativa per l’attribuzione di alcune competenze, con il risultato però che il dialogo non portò nessun frutto.
C’eravamo (quasi)
L’ultima carta fu spesa dal governatore Zaia quando, nel 2014, ottenne dal Consiglio regionale l’indizione di un referendum per l’ottenimento di maggiore autonomia tramite la trattativa prevista dalla Costituzione. La legge fu impugnata dal Governo Renzi, ma la Corte la salvò perché «non prelude a sviluppi che eccedono i limiti previsti». La vittoria di quella che può essere vista come la principale (e incerta) battaglia della storia politica del Nordest ha portato i veneti a credere che, dopo decenni di tentativi, il sogno diventasse realtà, considerato anche l’insediarsi del Governo gialloverde e l’istituzione di un ministero ad hoc per l’autonomia. Tuttavia, come era facile prevedere, il centralismo e un incompreso meridionalismo dei ministri grillini hanno posto ostacoli ovunque, nonostante l’articolo 116 fosse stato invocato da ulteriori 12 regioni e l’esecutivo guidato da Gentiloni avesse siglato con Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna un accordo preliminare.
E invece niente
In un anno di Governo Lega-M5s il “dossier autonomia” ha vagato fra un ufficio ministeriale e l’altro con l’impossibilità di raggiungere una posizione condivisa. Critiche si sono levate non solo dai ministeri, ma anche dalla classe dirigente meridionale di ogni partito, timorosa di un Mezzogiorno lasciato a secco di finanziamenti a vantaggio delle regioni più sviluppate. Inoltre la crescita dei consensi leghisti nel Sud ha portato gli stessi vertici di Via Bellerio a frenare il vento autonomista proveniente dal Veneto e allungare i tempi per trovare una sintesi fra le posizioni. Sta di fatto che se con il precedente esecutivo poco si è fatto, l’insediamento del nuovo sembra preannunciare l’arenarsi della trattativa. Il tema non è solo politico, ma anche culturale.
Centralismo disastroso
L’Italia, dopo decenni di centralismo disastroso, fatica a pensare in senso federalista come la Germania, l’Austria o addirittura la Spagna, non riuscendo a capire che autonomia significa territorialità e responsabilizzazione: soltanto dando voce e competenze ai territori si può costruire uno Stato più efficiente.
D’altronde, gli stessi padri costituenti erano concordi nel ravvisare che l’eccessivo accentramento fosse un metodo sbagliato e la sua realizzazione avrebbe portato a un malfunzionamento della macchina statale (e oggi ce ne siamo accorti). Essi erano convinti che la battaglia per dare ai territori maggiori competenze non fosse figlia di un’unica idea politica, ma dovesse unire le ideologie e anche la stessa Italia per far sì che il Nord progredisse e il Sud si rialzasse. Il pericolo è che, a poco più di 70 anni dall’entrata in vigore della Carta, quegli insegnamenti restino inascoltati e si sia persa l’ennesima occasione per cambiare il Belpaese.
Foto Ansa
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