Più che le corride sull’articolo 18, avremmo bisogno di chiederci cosa è cambiato nel mondo del lavoro

Di Francesco Seghezzi
19 Agosto 2014
Da anni si contrappongo i pro e i contro l'articolo. Intanto il paese e il mondo del lavoro è cambiato. Alcuni spunti per un dibattito che vuole uscire dai cliché

L’Italia, si sa, è il Paese delle contraddizioni. Ma un osservatore straniero, che si dovesse trovare per caso ad assistere al dibattito sul mercato del lavoro in corso in questi giorni, rimarrebbe, forse, particolarmente sconcertato. Da un lato, infatti, c’è l’enorme quantità di dati che dimostrano come il mercato del lavoro ormai stia cambiando; uno su tutti l’aumento dei contratti a tempo determinato, in parallelo alla costante diminuzione di quelli a tempo indeterminato. Dall’altro, c’è l’aumento dell’età anagrafica dei lavoratori; con tutte le conseguenze che ciò implica, sopratutto per i più giovani, in termini di occupazione. L’elenco dei problemi, però, potrebbe essere ancora più lungo. Basti pensare, per esempio, al perdurare, nelle discussioni tra gli addetti ai lavori, di vecchi schemi interpretativi “fordisti”, che ancora dominano il dibattito politico-sindacale. Come confermato, peraltro, dal prevedibile polverone mediatico sollevato intorno al recente accordo siglato dai sindacati con la famosa catena di gelaterie Grom.

MORIREMO DI ARTICOLO 18? Questi sono i fatti. Ai quali si aggiunge, poi, l’incessante richiesta, da parte delle istituzioni europee, in particolare dalla Bce di Mario Draghi, di una sempre più urgente modernizzazione del mercato del lavoro. Ma ai fatti, purtroppo, come nel più classico dei dibattiti novecenteschi, spesso si contrappone l’ideologia. In questo senso, il titolo dell’editoriale di Vittorio Feltri, «Moriremo di articolo 18», coglie bene la dimensione del fenomeno in corso: da anni, infatti, nel Paese, si contrappongono, sterilmente, sostenitori e aspiranti distruttori di ciò ormai che ha assunto l’aspetto di un simbolo, l’articolo 18, appunto; chi in difesa dei diritti del lavoratore e chi in difesa della libertà di impresa. Ciò che non si è capito, però, è che, nel frattempo, è cambiata l’impresa ed è cambiato anche il lavoratore. Perciò, ben venga il dibattito sul ruolo e la natura del contratto subordinato a tempo indeterminato, ma, al tempo stesso, non lo so si riduca semplicemente al discorso intorno alla clausola sul licenziamento, che pure è importante e non è da sottovalutare.

IL MERCATO DEL LAVORO È CAMBIATO. L’evidenza empirica dimostra ormai a chiunque che parole come “flessibilità” e “partecipazione” non possono più essere considerate quali termini di uno scontro dialettico tra parti; ma sono condizioni di sopravvivenza e, perché no, di crescita, per un moderno mercato del lavoro. Diverse previsioni, inoltre, ipotizzano come, tra pochi anni, nella maggior parte delle professioni proprie della produzione manifatturiera di larga scala, la manodopera operaia potrà essere facilmente sostituita dall’opera dei robot; anche se ciò, a dire il vero, era prevedibile già in passato. Non era prevedibile, invece, che interi settori, quali per esempio quello automobilistico, potessero ridurre notevolmente la quantità della loro produzione a causa di nuove forme di sharing economy. Previsione che potrebbe avverarsi, se è vero che, come ha detto di recente il fondatore di Uber, l’auto sarà come l’acqua, «non è tua, ma scorre dal rubinetto quando ce n’è bisogno». Consideriamo, poi, l’ultimo rapporto McKinsey sulle conseguenze dell’utilizzo della tecnologia e di internet da parte della popolazione cinese: fa pensare che la sostenibilità di un modello produttivo che si basa sulla delocalizzazione in Paesi con manodopera non tutelata e a basso costo, non sia per forza di cose destinato a durare in eterno.
Ha ragione, pertanto, il premier Renzi, quando sottolinea la necessità di rivedere nel suo impianto complessivo lo Statuto dei lavoratori; occorre farlo, però, alla luce di queste evidenze e non della “corrida” ideologica sull’articolo 18. Il contratto subordinato a tempo indeterminato – chiediamoci – è un istituto che risponde ancora alle esigenze del mercato del lavoro? La risposta non è scontata, ma i fatti appena esposti lasciano intendere una risposta negativa. E non nel lungo periodo, ma già oggi.

ALLEANZA TRA DIPENDENTI E IMPRESE. L’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), già lo scorso dicembre, rifletteva sulla sempre maggior polarizzazione del mercato del lavoro, per cui si sta andando verso una sempre maggior importanza delle competenze individuali, quelle che le macchine non possono sostituire. E questi lavori, caratterizzati ciascuno da particolarità irrinunciabili, avranno bisogno di una regolazione giuridica che tenga conto di queste peculiarità. Tale regolazione deve per esistere essere sussidiaria, ossia costruita in stretto raccordo con le singole attività produttive e commerciali. Questo implica un rapporto collaborativo e partecipativo tra il lavoratore e impresa, al fine di ottenere ciascuno il meglio possibile. Occorre forse iniziare a ragionare, come diceva Simone Weil, nella logica dei doveri più che dei diritti. Il dovere che ha un imprenditore nel confronti della persona del lavoratore e viceversa.
Sono solo alcuni spunti, che non vogliono essere esaustivi, ma lanciare una provocazione a un dibattito estivo che, se continuerà in questo modo, si spegnerà lentamente come le foglie autunnali. Senza aver la forza di portare frutti. Frutti di cui tutti oggi abbiamo estremamente bisogno.

@francescoseghez

Articoli correlati

5 commenti

  1. filomena

    Sono sostanzialmente d’accordo con i commenti che precedono il mio. Vorrei far notare però alcuni dettagli del linguaggio usato nell’articolo che denotano una forte contraddizione rispetto all’uso che se ne fa stigmatizzando certi termini quando si tratta di temi sociali. Mi riferisco a termini come progresso, cambiamento, modernità, uso della tecnologia, ideologia ecc. Tutti questi termini se riferiti all’evoluzione delle dinamiche sociali e in particolare ai rapporti dentro e fuori la famiglia vengono classificati come assolutamente negativi quasi a voler dimostrare che la società e la morale sono una specie di monolite che risponde a dei principi indiscutibili e dati una volta per sempre. La realtà invece è che se il mondo del lavoro oggi è cambiata, inevitabilmente determina anche un cambiamento sociale che segue le stesse regole del mondo produttivo, quindi o quei concetti che stanno dietro ai termini usati mell’articolo i danno per buoni in entrambe le realtà o sono sempre da condannare.

  2. mike

    si devono alzare gli stipendi. così si spende, così l’economia gira, così se uno perde un lavoro è più facile che ne trovi un altro, così le aziende guadagnano e possono pagare con meno problemi le tasse e avere anche accesso più facile al credito. e magari si cambi anche la testa degli imprenditori così se a loro gira non evadono (che lo fanno anche se gli va bene) e lo stato può anche permettersi di abbassare le tasse (dato che se le alza è anche per recuperare ciò che ha perso a causa dell’evasione fiscale). e si cambi la testa anche ai banchieri. in sintesi: stipendi più alti e meno ingordigia da parte degli imprenditori e delle banche.

    1. Giulio Dante Guerra

      Che c’entra questo col mio giudizio, di chimico, sull’acciaio come materiale ormai obsoleto per molti usi? Hai mai visto, io sì, un prototipo d’ala d’aereo tutto in materiale sintetico, senza nemmeno un grammo d’acciaio, messo a punto dal CNR qui in Italia, ma mai arrivato sugli aerei della nostra, ormai “ex-“, compagnia di bandiera?

  3. francesco taddei

    a terni i tedeschi per licenziare e delocalizzare non hanno bisogno dell’art.18. quello che serve all’ italia è protezione contro gente che ragiona così. magari il mondo sarà cambiato, ma non è mica tutto uguale.

    1. Giulio Dante Guerra

      A Terni si produce un materiale ormai per molti versi obsoleto: l’acciaio, già oggi sostituito, per molti usi, da materiali sintetici d’avanguardia, che col passare del tempo lo sostituiranno sempre di più. L’unica cosa che sarebbe da fare, a Terni come a Bagnoli, a Piombino etc., sarebbe diversificare la produzione verso questi materiali, che, invece, sembrano non interessare per niente alle industrie italiane. Un esempio, che conosco per esperienza quasi diretta: un mio collega del CNR di Pisa, autore di ricerche su materiali di questo tipo, trovò, sì, collaborazione e finanziamento dall’industria; ma da quella polacca, che, scopertasi, dopo la caduta del regime e della sua “economia ingessata”, indietro di ameno 50 anni, decise di “saltare il gap” e di entrare sùbito nel XXI secolo. Risultato: fra non molto, importeremo dalla Polonia materiali indispensabili alle poche industrie rimasteci, fabbricati là ma progettati qui da noi.

I commenti sono chiusi.