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«Giocatori di football come gli schiavi». Nuove assurdità dell’antirazzismo in America

Il folle paragone dell'ex giocatore Kaepernick in un documentario su Netflix e i danni della narrazione sulle razze che inizia a scricchiolare

Roberto Gotta
05/11/2021 - 6:15
Cultura
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Un uomo indossa una mascherina con la foto di Colin Kaepernick durante una manifestazione antirazzista nel 2020 in America (foto Ansa)

Nelle stesse ore in cui in Virginia veniva eletta come vicegovernatrice Winsome Sears, immigrata giamaicana che nel commentare l’esito del voto ha detto «sto distruggendo tutta la narrazione sulle razze, sono arrivata fin qui semplicemente studiando e impegnandomi e secondo alcuni dovrei sentirmi una vittima [solo perché ho la pelle nera]?», si diffondevano nel mondo le parole pronunciate da Colin Kaepernick, l’ex quarterback della NFL, la lega americana di football, secondo il quale il processo di selezione dei giocatori corrisponde a una forma moderna di schiavitù. Frasi pronunciate nel corso di uno speciale costruito ad hoc per esaltare il personaggio e prodotto da Kaepernick stesso per Netflix (strano, vero?). Tra le altre perle, un attacco ai personaggi di serie tv comiche, tra cui il celebre Arnold, a suo avviso costruiti sul modello dell’afroamericano rassicurante e simpatico: «Il nero accettabile è quello che indossa caratteristiche da bianco, che non mette a disagio i bianchi».

Colin Kaepernick, in his new Netflix special, compares NFL training camps to slavery. pic.twitter.com/bu5C2alild

— The Post Millennial (@TPostMillennial) October 30, 2021

Antirazzismo e vittimismo a oltranza

Due mondi diversi, quelli della Sears (ex militare, in un manifesto elettorale compariva con un mitra in mano) e di Kaepernick, che il fanatismo e l’intolleranza progressiste vorrebbero mescolare in un unico minestrone dallo stesso colore e sapore piagnucolante.

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La Sears, che con il proprio esempio – e quello di milioni di altri americani di nascita o cittadinanza, qualunque sia il colore della loro pelle – dimostra che lavorando e creandosi obiettivi si può arrivare in alto; Kaepernick, che pur avendo guadagnato nella sua carriera di atleta circa 40 milioni di dollari usufruendo delle medesime possibilità della vicegovernatrice continua sulla retorica delle discriminazioni, delle disuguaglianze, del vittimismo a oltranza.

Che poi gli USA abbiano un percorso non netto e spesso imbarazzante e tragico, sul fronte del razzismo, è noto: ma il tremendo pericolo degli ultimi anni è che il racconto distorca la realtà, che è poi esattamente quello a cui puntano tutti i movimenti intolleranti nati laggiù, dalle pretese multiconsonantiche agli abbattitori di statue ai fanatici del Black Lives Matter con la loro forza di suggestione mediatica sulle menti impreparate e ingenue. Come altro spiegare lo spettacolo penoso, un anno e mezzo fa, di tanti italiani – molti dei quali giornalisti, alcuni di nostra conoscenza e con una esperienza vicina allo zero di questioni americane – a postare il pugnetto chiuso e l’hashtag #blm?

La Combine e il razzismo che non c’è

Chiariamo il contesto delle parole di Kaepernick: per entrare nella NFL, o in qualunque altra lega professionistica di alto livello, i giocatori già segnalatisi nella loro carriera universitaria vengono messi alla prova, testati, esaminati nel corso di un evento chiamato Combine. Spesso criticato perché assomiglia, questo sì, ad un mercato della carne, con l’ovvia differenza che non si tratta di povere bestie mandate prima o poi al macello ma di atleti che in caso di scelta – MAI determinata da fattori razziali – possono diventare milionari. Chi non riesce a essere invitato alla Combine ci rimane malissimo ma secondo Kaepernick dovrebbe invece essere contento. Di perdere opportunità, di dover rinunciare al sogno di diventare atleta professionista.

Perché, sempre secondo il nostro, in realtà non è un sogno vero ma nasce solo dalla mancanza di opportunità su altri fronti. Insomma, diventano giocatori NBA o NFL perché non hanno le possibilità di diventare dottori o avvocati. Una roba palesemente senza senso, come ha sottolineato anche Jack Brewer, afroamericano, ex giocatore, ora a capo di una importante società di consulenza.

«La dottrina Kaepernick è pericolosa»

Ex sostenitore deluso di Barack Obama, diventato supporter di Donald Trump da lui definito «il primo vero presidente nero» per la mentalità e l’approccio, Brewer ha detto: «Io nella Combine ci sono passato e non ho mai avuto la sensazione di perdere la dignità. La dottrina Kaepernick è pericolosissima per i giovani afroamericani perché inculca nella loro testa l’idea che siano vittime predestinate [del sistema], pur vivendo nella nazione che dà più opportunità e possibilità di tutte. Io con il mio lavoro e le mie opere cerco ogni giorno di aiutare ragazzi afroamericani in difficoltà e questo se ne esce dicendo che dei milionari sono schiavi e che un traguardo che è il sogno di molti, ovvero essere chiamato alla Combine, è schiavitù? Dovrebbe fare un po’ di autoanalisi… il suo è un malvagio spirito anti-americano».

Brewer sarà di parte – prima però era di quella opposta e se ha cambiato idea un motivo ci sarà – ma ha centrato il nocciolo della questione: la furbizia e la sfacciataggine di chi partendo da considerazioni non discutibili (razzismo, tuttora esistente) costruisce un mondo di esagerazioni e vittimismo vigliacco perché pronto ad accusare di discriminazione chiunque vi si voglia opporre con un minimo di razionalità e ragionamento.

I danni della Critical Race Theory

L’altro giorno, in Virginia, l’elezione del nuovo governatore Glenn Youngkin (e dell’attorney general, massima carica legale e giudiziaria, Jason Miyares, di origini cubane) è nata in parte anche dalla sua opposizione all’insegnamento più o meno palese nelle scuole della cosiddetta CRT (Critical Race Theory), la dottrina che in soldoni identifica gli Stati Uniti come nazione costruita su razzismo istituzionale e i bianchi come oppressori a prescindere. Dottrina che – come le sparate di Kaepernick – ha incrementato, non attenuato, le tensioni razziali, con episodi di bambini (bianchi) delle elementari che tornano a casa e chiedono alla madre se «è vero che siamo cattivi?», segnalati qua e là sui social media.

Un bel modo di costruire armonia, insomma, ma si incanala alla perfezione nell’aggressività distruttiva e prevaricatrice emersa nell’ultimo biennio, e che sta fortunatamente trovando opposizione nella gente che, semplicemente, non vuole sentirsi imporre nulla e vede la realtà senza filtri ideologici: in Virginia è andata come sappiamo, a Minneapolis – sede dell’uccisione di George Floyd da parte di un agente di Polizia – la proposta di abolizione della Polizia stessa e sua sostituzione con una struttura basata sull’approccio olistico (…) al problema della sicurezza è stata bocciata dagli elettori dopo essere stata osteggiata persino da sindaco e governatore democratici perché troppo estremista, mentre a Seattle, per la carica di attorney locale, la Repubblicana Ann Davison era in netto vantaggio sull’avversaria Nicole Thomas-Kennedy. Ovvero, una che proponeva di decriminalizzare la maggior parte dei piccoli reati e che durante le rivolte del 2020 scrisse apertamente sui social media del suo odio profondo per la polizia e dell’imperativo morale di distruggere negozi e locali. Casomai, preoccupa che oltre il 40 per cento abbia votato per la Thomas-Kennedy ma Seattle è così, si piace (in parte) anarchica, anche di fronte ad un centro città quasi abbandonato dai pedoni per via del numero enorme di senzatetto, come evidenziato da un articolo uscito su Bloomberg pochi giorni fa.

Il futuro di Kaepernick

Kaepernick che farà, ora? Proseguirà nella sua battaglia, forse con qualche alleato in meno dopo l’assurdità delle sue ultime frasi ma sempre appoggiato da un numero di sostenitori e aziende più che sufficiente a rassicurarlo sul fronte economico personale e pubblico, dato che ha elargito notevoli somme in programmi di sostegno. Non tornerà a fare lo schiavo – scusate, giocare a football – perché il tempo passa anche per lui, anche se due anni fa aveva contattato due leghe minori, la AAF e la XFL, chiedendo un contratto minimo di 20 milioni di dollari, cioè 200 volte lo stipendio medio degli altri giocatori.

In passato, dopo le sue prime manifestazioni di protesta e l’uscita (volontaria, va detto) dal contratto con una stagione di anticipo, è quasi certo che le squadre NFL si siano tacitamente accordate per non firmarlo, come da sua causa legale poi sistemata fuori tribunale, visto che giocatori di minor valore un impiego lo hanno trovato, ma è anche vero che la sua presenza poteva rappresentare una distrazione per la squadra e fonte di divisione interna. Quando ad interessarsi a lui furono i Baltimore Ravens, nel 2017, la fidanzata Nessa pubblicò un tweet che ritraeva la superstar Ray Lewis, afroamericano ritiratosi da qualche anno, abbracciata al proprietario (bianco) Steve Bisciotti, affiancata da un gesto analogo di Samuel L. Jackson con Leonardo DiCaprio, nel film Django Unchained: significato chiarissimo, Bisciotti era uno schiavista e Lewis uno schiavo, oltretutto consenziente. Saltò tutto, ovviamente.

Tags: antirazzismoblack lives matterdiritti civilifootball americanonflrazzismoStati Uniti
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