«Fratelli Musulmani, oppositori democratici, islamisti jihadisti, Mubarak: non farti confondere dall’agitazione sul palcoscenico. L’Egitto lo tengono in mano i militari, e sarà sempre così». Tutte le volte che mi arrivano notizie di fatti egiziani, mi viene in mente automaticamente questa frase che un giorno pronunciò davanti a me un missionario italiano, l’allora superiore della provincia comboniana dell’Egitto padre Claudio Lurati. Figuratevi non appena si è saputo che l’aviazione egiziana aveva bombardato le posizioni del Daesh a Derna e che le truppe di assalto erano entrate in territorio libico e avevano inflitto gravi perdite al nemico terrorista.
Era il 2004 e per la prima volta sbarcavo al Cairo, obiettivo un reportage sulle radici del fondamentalismo islamico. Avevo capito che dietro gli exploit sanguinari di Osama Bin Laden ci stava il motto dei Fratelli Musulmani egiziani fondati nel 1928 da Hassan al Banna («Il Corano è la nostra costituzione, il Profeta è la nostra guida, il jihad è la nostra via e la morte in nome di Dio è il nostro obiettivo»), e il pensiero del profeta del jihadismo moderno, l’egiziano Sayyid Qutb impiccato da Nasser nel 1966. In Egitto pensavo di poter toccare con mano i germogli di quella che prima o poi sarebbe diventata una repubblica islamica governata sulla base della sharia che avrebbe strizzato l’occhio ad Al Qaeda: Ayman al Zawahiri, l’allora vice di Osama, è nato al Cairo. Ma padre Claudio gettò la sua secchiata di realismo e di competenza delle cose maturata sul campo sui miei furori giornalistici. Il traffico ronzava e sospirava fuori dalle finestre della canonica ad Abbaseya, quello che una volta era un quartiere cristiano del Cairo popolato di europei e di egiziani copti, e che il boom demografico e l’emigrazione degli europei dopo la cacciata di re Faruk avevano trasformato in un altro quartiere a grande maggioranza musulmana. Ad Abbaseya c’è la cattedrale copta di San Marco, la chiesa del papa dei copti, che allora era Shenouda III. Ma le vie sono uno sventolìo di veli islamici, di nenie coraniche che escono dai transistor sui marciapiedi, di taxi coi versetti del Corano appesi sul parabrezza. È incredibile com’è cambiato Il Cairo nel giro di cinquant’anni. Quella che era una città di architetture coloniali ed eredità medievali si è trasformata in un ibrido di palazzoni popolari e grattacieli dirigenziali. La popolazione è passata da un milione a 16 milioni di abitanti. La campagna è entrata nella città e la città è entrata nelle teste degli ex contadini. Negli anni Sessanta le donne che portavano il velo non erano più del 10 per cento nella capitale, adesso è il contrario: il 90 per cento indossa il foulard islamico e un 10 per cento di queste il niqab (il velo integrale che trasforma le donne in fantasmi neri). L’islamizzazione della città è andata di pari passo con l’immigrazione dalle campagne, come mi spiegava il gesuita padre Van Nispen. Altro che New York: la città che non dorme mai è Il Cairo, dove sentite suonare i clacson delle auto attraverso tutta la notte – se un autista egiziano non suona il clacson a qualunque incrocio che attraversa non può essere un autista egiziano – e dove all’una di notte incontrate famiglie al completo, mamma, papà e quattro-cinque bambini, a passeggio in Midan Hussein o seduti ai tavolini dei bar all’aperto.
In cinquant’anni in Egitto, e in particolare al Cairo, è cambiato tutto. Tutto, tranne una cosa: l’esercito e il suo ruolo. E il pensiero corre immediatamente a Nasser, al colpo di Stato dei Liberi Ufficiali nel 1952 e al fatto che da allora fino ad oggi soltanto nei dodici mesi di presidenza di Mohamed Morsi (30 giugno 2012 – 3 luglio 2013) il capo dello Stato egiziano non è uscito dai ranghi dell’esercito. Ma la cosa viene ancora più da lontano: l’Egitto è governato dai militari dal 1250, quando sorse il sultanato dei mamelucchi. E i suoi periodi di maggiore declino coincidono con l’allontanamento dell’elemento militare dal potere (vedi la fase del controllo diretto ottomano sull’Egitto). I militari egiziani storicamente sono lungi dall’essere invincibili, ma hanno sempre imparato dalle loro sconfitte: che si trattasse della battaglia delle Piramidi persa rovinosamente contro Napoleone o della catastrofica sconfitta di fronte agli israeliani nella guerra dei Sei giorni, le forze armate egiziane hanno fatto tesoro delle lezioni subìte e qualche tempo dopo si sono riscattate. Quello egiziano è l’unico esercito regolare che abbia costretto Israele a ritirarsi da territori arabi conquistati: il Sinai occupato nel 1967 e restituito dopo la guerra del 1973. Quel conflitto, che per noi osservatori esterni si è concluso con una sorta di pareggio, per gli egiziani è una vittoria a tutto tondo, così viene celebrata nei monumenti costruiti in giro per il paese e nelle parate militari del 6 ottobre.
L’esercito egiziano è uno Stato nello Stato, sul modello di quello sovietico. I militari egiziani usufruiscono di ospedali, resort estivi, club e negozi riservati. Controllano una quota importante dell’economia nazionale (qualcuno ha scritto: il 40 per cento) attraverso la proprietà di imprese di costruzione, della grande distribuzione, agenzie turistiche, stazioni di servizio, ecc., per non parlare delle proprietà fondiarie e immobiliari. Gestiscono fondi fuori bilancio di cui non devono rendere conto a nessuno, perché la loro gestione è segreto di Stato finalizzato alla sicurezza nazionale. Eppure l’egiziano medio odia la polizia – corrotta, manesca, torturatrice – ma rispetta profondamente l’esercito. È come se l’antico culto per i faraoni si fosse trasferito sull’istituzione militare. Mi diceva un intellettuale locale: «L’Egitto è il dono del Nilo, ed è un dono molto fragile: 70 milioni di persone (adesso sono 82 – ndr) che vivono lungo le sponde del fiume, al ritmo delle sue esondazioni di limo, intenti a costruire i canali che rendono possibile la coltivazione della terra in una striscia di pochi chilometri. Tutt’intorno ci sono migliaia di chilometri di deserto infuocato, inospitali alla vita. Perché il fragile equilibrio non collassi è necessario che la catena di comando non si spezzi mai, è vietata l’insubordinazione. Il vertice ha un potere sacrale perché da lui dipende la vita di tutto il popolo. Ieri il faraone, oggi chi detiene veramente il potere, cioè l’esercito».
Per quanto riguarda la questione dei cristiani egiziani trasformati in vittime sacrificali degli estremisti islamici, i bombardamenti e le incursioni egiziane contro il Daesh libico sono l’equivalente dei cordoni di civili musulmani armati in difesa delle chiese copte assalite dai simpatizzanti dei Fratelli Musulmani nell’agosto 2013: anche allora ci fu chi pensò di mettere in crisi il nuovo regime militare aizzando una guerra di religione e danneggiando l’immagine del paese nel mondo, ma milioni di egiziani musulmani capirono l’antifona e scesero in strada armati alla meglio in difesa delle chiese dei loro concittadini cristiani. Stavolta lo Stato non si fa trovare impreparato, e con la sua risposta invia un messaggio preciso ad amici e nemici: l’Egitto è un paese islamico a norma di costituzione, ma questo non significa che per le autorità la vita dei cittadini appartenenti alla minoranza cristiana valga meno di quella dei cittadini appartenenti alla maggioranza. Al Sisi ha rassicurato i suoi concittadini di fede cristiana, ha mostrato che lo Stato non fa differenze fra musulmani e cristiani. Da questa vicenda i rapporti fra cristiani e musulmani in Egitto escono rafforzati, non indeboliti come avrebbero voluto i terroristi. E questo è solo l’inizio. L’Egitto è sempre stato il paese leader del mondo arabo in termini demografici, militari, politici e culturali. Al Sisi non si è rivolto alla Lega araba al momento di proporre una larga coalizione per la pacificazione della Libia, ma all’Onu. Perché sa che all’interno della Lega predominano invidie e interessi contrapposti, ma anche perché aspira a un ruolo più internazionale per il suo paese. Potrebbe pagare con la vita la sua risoluta intransigenza, le sue azioni repressive contro l’islam politico interno e la sua reazione al jihadismo esterno sotto forma di un vero e proprio contrattacco. Ma questo non è decisivo: gli uomini passano, le forze armate egiziane restano. Chiedere conferma a padre Claudio Lurati, il missionario comboniano che non sorride più. Adesso ride.
Foto francobollo Egitto da Shutterstock