11/9. La verità ha un prezzo

Di Rodolfo Casadei
08 Maggio 2016
Una legge per fare giustizia e scoprire le possibili implicazioni dell’Arabia Saudita negli attacchi alle Torri Gemelle è pronta. Ma Obama ha 750 miliardi di dollari di motivi per fermarla

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Barack Obama è il presidente americano che più ha scontentato la monarchia saudita dai tempi della guerra del Kippur nel 1973, quando l’Arabia Saudita e gli altri paesi dell’Opec sospesero per sei mesi le esportazioni di petrolio verso gli Stati Uniti e altri paesi occidentali come rappresaglia per il loro sostegno ad Israele.

Obama ha ricercato e concluso un accordo sul nucleare con l’Iran, il nemico mortale dei sauditi; non ha bombardato la Siria dopo avere promesso di farlo e non ha sostenuto i ribelli anti-Assad tanto quanto era necessario perché abbattessero il regime inviso a Riyadh e lo sostituissero con uno inserito nell’orbita saudita; non ha difeso Hosni Mubarak, l’alleato regionale più importante dell’Arabia Saudita, ai tempi della Primavera araba. Ha cercato di spostare il centro nevralgico della geopolitica dal Medio Oriente all’Estremo Oriente. Nell’ormai famoso articolo-intervista di Jeffrey Goldberg su The Atlantic Obama in persona definisce «complicata» l’alleanza degli Stati Uniti coi sauditi. Eppure il nemico numero uno della legge bipartisan che il Congresso vorrebbe approvare per permettere ai parenti delle vittime dell’11 settembre di fare causa al governo saudita per le sue presunte complicità negli attentati di al Qaeda è proprio lui.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Alla vigilia del suo recente viaggio in Arabia Saudita del 22 aprile (il quarto da quando è presidente), un portavoce ha dichiarato che se il Congresso approvasse la proposta di legge chiamata “Justice against sponsors of terrorism act” (Jasta), Obama porrebbe il veto. Salito alla presidenza, aveva promesso che avrebbe provveduto a rimuovere il segreto di Stato su 28 pagine del rapporto del 2002 della Commissione congiunta del Congresso sui deficit di sicurezza che avevano reso possibili gli attacchi dell’11 settembre, pagine relative a possibili implicazioni dell’Arabia Saudita negli attentati. Tuttora non lo ha fatto. Quando le famiglie delle vittime dell’11 settembre hanno cercato di portare il loro caso all’attenzione della Corte suprema, il ministero della Giustizia su istruzione dell’amministrazione presidenziale ha notificato il suo parere sfavorevole alla Corte. Bastano e avanzano questi paradossi per intuire quanto sia vero che quella fra gli Stati Uniti e la monarchia di re Salman è una relazione complicata.

I motivi della prudenza
La motivazione ufficiale del preannunciato veto obamiano è che una legge che eliminasse l’immunità dei governi stranieri da cause intentate da privati cittadini presso i tribunali americani esporrebbe gli Stati Uniti a rappresaglie giuridiche all’estero: si teme che verrebbero approvate anche lì norme per mettere sotto accusa il governo americano, attraverso l’incriminazione di militari e funzionari statunitensi per complicità in atti terroristici. La spiegazione è piuttosto stiracchiata, poiché in realtà la vigente legge americana sull’immunità legale degli stati stranieri permette a un cittadino di fare causa a uno Stato estero per «torti non commerciali», per esempio per una condotta che causa la menomazione o la morte di una persona su suolo americano. Le cause relative alle vittime dell’11 settembre finora sono state respinte perché le Corti interpretano la legge vigente (il Foreign Sovereign Immunities Act, Fsia, del 1976) nel senso che tutto il “torto” deve avere avuto luogo negli Stati Uniti. E siccome la complicità del governo saudita negli attacchi condotti da Mohamed Atta e soci implicherebbe la valutazione di atti cominciati fuori dai confini americani, ecco il motivo per cui le querele sono state respinte. Ma se volessero applicare il principio di reciprocità e limitare l’immunità del governo americano, gli altri stati avrebbero già il motivo per farlo. Se varassero norme speculari a quelle del Fsia nessuno potrebbe dire niente.

Sono state le minacce di disinvestimento a determinare gli interventi ostruzionistici obamiani? Difficile crederlo. È vero che nel mese di marzo il ministro degli Esteri saudita Adel al Jubeir in visita a Washington ha detto chiaramente che il suo paese si sarebbe liberato di 750 miliardi di dollari in titoli di Stato del debito americano se la legislazione anti-immunità approvata dalla commissione Esteri del Senato fosse stata ratificata anche dalla Camera dei rappresentanti. Ma gli esperti di finanza sono scettici. Tanto per cominciare non è vero che i sauditi detengono 750 miliardi di dollari di debito pubblico americano: la cifra è gonfiata, probabilmente il ministro ha sommato titoli del debito con altri investimenti e quote azionarie. In secondo luogo l’operazione minacciata, se mai venisse attuata, danneggerebbe il dollaro, che è la moneta con cui avvengono le transazioni petrolifere, la principale e quasi esclusiva fonte di reddito del reame arabo. Si tratterebbe di un atto autolesionistico da parte dell’Arabia Saudita.

I motivi profondi e indicibili della prudenza obamiana, che sono poi quelli di tutto l’establishment americano, li ha evocati sul sito internet dell’Huffington Post andando un po’ sopra le righe Kristen Breitweiser, una delle vedove dell’11 settembre impegnata da 15 anni a trascinare il governo saudita sul banco degli imputati: «Gli Stati Uniti hanno venduto quasi 100 miliardi di dollari di armi all’Arabia Saudita. E la nostra industria della difesa elargisce grossi contributi alle campagne elettorali di quelli che ora sono ex presidenti, presidenti, candidati presidenziali e membri del Congresso. I sauditi pagano operazioni clandestine della Cia in giro per il mondo. Questo significa che quando la Cia vuole fare qualcosa senza passare al vaglio del Congresso, come certe operazioni in Siria e nello Yemen, e in passato il sostegno ai mujaheddin in Afghanistan e l’affare Iran-Contras, si rivolge all’Arabia Saudita per il finanziamento delle sue “attività ricreative”. L’Arabia Saudita fornisce basi per i nostri droni e fa parte della coalizione che combatte contro Bashar al Assad e nello Yemen, in entrambi i casi per controbattere l’influenza iraniana. I sauditi pagano agenzie lobbistiche che hanno forti legami con Obama, i Bush e i Clinton oltre che col Congresso». E inoltre: «Se il Jasta è approvato, i sauditi smetteranno di collaborare e condividere informazioni di intelligence con gli Stati Uniti e ci lasceranno vulnerabili a un attacco dell’Isis».

Contratti faraonici
La lista delle motivazioni è esaustiva, e merita di essere approfondita. I commentatori favorevoli all’approvazione del Jasta sottolineano che dopo la valorizzazione dell’olio e del gas di scisto l’accesso degli Stati Uniti al petrolio saudita, la cui incidenza sui consumi americani è scesa al 10 per cento del totale, non è più strategico e quindi non bisogna temere di mettere in crisi il vecchio rapporto. Dimenticano che l’Arabia Saudita è diventata un cliente strategico dell’industria militare americana. Ancora due anni fa l’ufficio stampa della Casa Bianca informava che «Il Regno dell’Arabia Saudita è il più grande cliente delle vendite all’estero di armamenti di produzione americana, con commesse in corso del valore approssimativo di 97 miliardi di dollari». Nell’ottobre 2010, con Barack Obama presidente e Hillary Clinton segretario di Stato, gli Stati Uniti hanno annunciato il più lucroso contratto di vendita di armi fra due stati di tutti i tempi: 60,5 miliardi di forniture militari acquistate dai sauditi.

La controversia sulle e-mail dell’indirizzo privato di Hillary Clinton quando era segretario di Stato e la rivelazione dei contenuti di molte di esse ha permesso di sapere che la vendita a Riyadh di 80 caccia F-15 alla vigilia del Natale 2011 per un importo di 29,4 miliardi di dollari era stata celebrata come «un regalo di Natale» da tutto il suo staff. L’entusiasmo si spiega con le donazioni che puntualmente arrivano sui conti della Fondazione Clinton all’indomani della firma di questi contratti, riferibili alla Boeing e all’Arabia Saudita. Negli anni precedenti la nomina di Hillary a segretario di Stato enti legati all’Arabia Saudita hanno versato alla Fondazione Clinton 10 milioni di dollari, e altri 15 dopo la nomina e fino al 2014.

Negli Stati Uniti l’Arabia Saudita si trova all’incrocio del mondo delle lobbies, delle grandi imprese sia di armamenti sia civili e dei responsabili politici, incrocio ben impersonato da uomini come Timothy Keating: assistente speciale nell’amministrazione di Bill Clinton, vicepresidente Boeing per i rapporti col governo e sostenitore della raccolta fondi per la campagna presidenziale di Hillary. Un lobbista per l’Arabia Saudita che è anche un sostenitore della raccolta fondi per il principale candidato democratico alle presidenziali di quest’anno è Anthony Podesta, pagato 140 mila dollari al mese dai sauditi per i suoi servizi. Il reame ha speso fino ad oggi 9,4 milioni di dollari in servizi lobbistici americani per evitare l’approvazione del Jasta.

Se negli States l’insofferenza per la relazione saudita-americana riguarda più l’opinione pubblica che l’establishment, in Arabia Saudita anche quest’ultimo mostra segni di crescente irrequietezza. La successione di Salman a re Abdallah all’inizio dell’anno scorso ha portato nelle stanze del potere una generazione consapevole che gli interessi geopolitici degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita non coincidono più come in passato, e pertanto decisa ad allentare l’alleanza e a trasformare Riyadh in una superpotenza che gioca in proprio. L’anno scorso l’Arabia Saudita è diventata il terzo paese al mondo per spesa militare, superando la Russia con 82,7 miliardi di dollari di uscite contro i 66,4 di Mosca. Non è affatto detto che continuerà a spenderli in armamenti americani. Il 25 aprile scorso Mohamed bin Salman, il vero uomo forte del governo saudita nonostante i suoi 31 anni, ha reso pubblico un piano di sviluppo del paese intitolato “Saudi Vision 2030” che la maggioranza degli osservatori ha accolto con scetticismo.

Se Riyadh cambia strategia
Si tratta dell’ennesimo tentativo da parte dei sauditi di configurare un’evoluzione dell’economia e della potenza del loro paese sganciate dalla dipendenza dalle esportazioni petrolifere, che rappresentano oggi il 46 per cento del Pil nazionale, l’84 per cento delle esportazioni e l’87 per cento delle entrate fiscali. Il piano mira ad aumentare le esportazioni non petrolifere dall’attuale 16 al 50 per cento e l’incidenza del settore privato sul Pil dall’attuale 40 al 65 per cento entro il 2030. Obiettivi fantascientifici, ma che potrebbero comunque imprimere un cambiamento di direzione alle politiche governative. Ci sono comunque due passaggi nel piano che non possono non turbare i sonni di politici e imprese americani: Mohamed bin Salman ha fatto notare che solo il 2 per cento della spesa militare saudita è coperta da prodotti e servizi nazionali.

Una situazione inaccettabile che deve cambiare: nel 2030 il 50 per cento della spesa militare saudita sarà interamente nazionale. L’altro argomento sensibile riguarda il fondo sovrano dell’Arabia Saudita. Attualmente consiste di 100 miliardi di dollari, ma il viceprincipe della corona nonché presidente del Consiglio per gli affari economici e ministro della Difesa intende trasformarlo nel più grande fondo di investimenti del mondo, dotato di almeno 2 mila miliardi di dollari, inizialmente provenienti dalla vendita pubblica del 5 per cento delle azioni della Aramco, la compagnia petrolifera e cassaforte del regno.

Nel futuro, in buona sostanza, i sauditi intendono spendere molto meno di oggi per comprare armi americane e destinare i loro risparmi a programmi ben più ambiziosi che l’acquisto di buoni del Tesoro del debito americano. C’è modo di fargli cambiare idea e riportarli sulla vecchia, buona strada? Forse non è un caso che Hillary Clinton, per lungo tempo silenziosa sulla faccenda, si sia recentemente dichiarata favorevole all’approvazione del Jasta (come pure Bernie Sanders). È arrivato il momento di non essere più compiacenti con l’Arabia Saudita. Lo chiedono i parenti delle vittime dell’11 settembre. Eh già, è una questione di giustizia e di diritti umani.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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4 commenti

  1. Alessandro2

    Poi dice che uno vota si butta su Trump (cfr. Totò).

    1. Menelik

      Cosa vuoi dire?
      Se Trump facesse una politica basterebbe un pochino più isolazionista e di minor ingerenza estera, sarebbe una mano santa per tutti, in primis per gli Americani stessi che ci guadagnerebbero molto in considerazione agli occhi del mondo, e poi nei confronti di tutti gli altri, Europa e Medio Oriente.
      Per non parlare di America Latina.
      In quanto alla Russia, in Medio Oriente ha fatto passi da gigante e si sta costruendo l’opinione di essere l’unica potenza politico-militare a prendere le difese dei Cristiani perseguitati, mentre la politica estera americana delle ultime amministrazioni ha dato l’impressione di fare l’esatto contrario.

      1. underwater

        Tecnicamente è Obama l isolazionista. Si è ritirato dai fronti più caldi e quando la situazione si è fatta di nuovo critica si è messo blandamente a combattere a distanza tramite i locali, senza metterci un soldato. Molto meglio un interventismo chiaro, dichiarato e con mezzi diretti, come Bush.

  2. underwater

    Il petrolio arabo è ormai una voce marginale nel fabbisogno americano. Come verso le lobby gay, bisogna avere il coraggio di dire: non abbiamo bisogno dei vostri soldi.

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