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In America c’è un problema serio con la libertà di parola

Sempre più cittadini statunitensi non si sentono liberi di dire quello che pensano (e anche il Nyt se ne accorge). A Yale gli studenti di Legge bloccano un convegno sulle libertà civili. La cancel culture esiste eccome

Piero Vietti
23/03/2022 - 6:23
Cultura
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Yale cancel culture
Un momento della protesta con cui lo scorso 10 marzo un centinaio di studenti di Giurisprudenza a Yale ha impedito un dibattito sulla libertà di parola (frame da un video pubblicato dal Washington Free Beacon)

«Nonostante tutta la tolleranza e l’illuminazione rivendicate dalla società moderna, gli americani stanno perdendo il controllo di un diritto fondamentale per i cittadini di un paese libero: il diritto di esprimere la propria opinione e di esprimere le proprie opinioni in pubblico senza paura di essere svergognati o evitati». Anche il New York Times si è accorto che la cancel culture esiste ed è un problema. Il giornale liberal americano pochi giorni fa ha pubblicato un editoriale allarmato per denunciare il «problema della libertà di parola» che c’è negli Stati Uniti.

Cancel culture e pensiero progressista

L’occasione è stato un sondaggio, commissionato tra gli altri dallo stesso Times, secondo cui solo il 34 per cento degli intervistati ritiene che tutti gli americani sperimentino una reale di libertà di parola. L’84 per cento dice che è un problema “molto serio” o “piuttosto serio” che alcuni americani non si sentano liberi di parlare quotidianamente per paura di ritorsioni o critiche. Difficile alzare le spalle e commentare, come fanno molti, che la cancel culture non esiste o che non è vero che “non si può più dire niente”, formula chiaramente iperbolica che indica un clima culturale che si sta facendo largo nel mondo del cinema, dell’istruzione, della scienza e dell’informazione, e non da prendere letteralmente.

Il problema esiste, ha le radici nel pensiero illiberale progressista che si definisce “woke”, risvegliato, e che ha imposto – a partire dalla università anglosassoni e poi via via in quasi tutte le istituzioni – un pensiero “giusto” che non ammette opinioni fuori linea su argomenti come razzismo, ambiente, lgbt e donne. Che la denuncia di questi clima trovi finalmente spazio sul New York Times non è scontato: il più famoso quotidiano americano del mondo è quello da cui la giornalista Bari Weiss se ne è andata oltre un anno fa denunciandone la linea editoriale censoria e illiberale.

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Le colpe della sinistra e della destra

«Come è successo?», si chiede l’editoriale: «In gran parte perché sinistra e destra politica sono intrappolate in un ciclo distruttivo di condanna e recriminazione intorno alla cancel culture. Molti a sinistra si rifiutano di riconoscere che essa esiste, sostenendo che chi se ne lamenta offre copertura ai bigotti per incitare all’odio. Molti a destra, nonostante tutto il loro gridare alla cancel culture, hanno abbracciato una versione ancora più estrema della censura come baluardo contro una società in rapido cambiamento, con leggi che vieterebbero i libri, soffocherebbero gli insegnanti e scoraggerebbero la discussione aperta nelle classi».

Un colpo al cerchio progressista e uno a quello conservatore, anche se mettere sullo stesso piano l’origine del problema e chi – anche con soluzioni sbagliate – prova a reagire è un’operazione ipocrita, un modo per non ammettere che il clima di autocensura denunciato dal sondaggio di cui sopra nasce dalla prepotenza woke. Che inizia preoccupantemente a tracimare, dopo avere “occupato” cultura e istruzione.

Studenti di Legge contro la legge

Il 10 marzo scorso alla facoltà di Legge di Yale era in programma un dibattito sulle libertà civili a cui, tra gli altri, era stata invitata a parlare Kristen Wagoner dell’Alliance Defending Freedom, un gruppo conservatore che promuove la libertà religiosa. Durante l’incontro un centinaio di studenti di giurisprudenza ha fatto irruzione nell’aula urlando e insultando i relatori, impedendo loro di parlare fino a che non è dovuta intervenire la polizia per scortarli fuori. Insulti anche per la progressista Monica Miller dell’American Humanist Association, colpevole di sostenere la necessità della libertà di parola.

L’appello del giudice contro gli studenti di Yale

L’episodio è «un esempio di cancel culture comune a tanti campus universitari», ha scritto il Wall Street Journal raccontando la lettera che un importante giudice federale ha scritto ai propri colleghi commentando i fatti di Yale. Dopo che la facoltà di Legge non ha preso alcun provvedimento contro gli studenti che hanno interrotto il dibattito, il giudice di Corte d’Appello Laurence Silberman ha voluto dare un consiglio agli altri giudici del suo distretto: «Gli ultimi eventi di Yale in cui alcuni studenti hanno tentato di mettere a tacere gli oratori che partecipavano a una tavola rotonda sulla libertà di parola mi hanno spinto a suggerire di cercare di identificare questi studenti. Tutti i giudici federali – e tutti i giudici federali sono presumibilmente impegnati a difendere la libertà di parola – dovrebbero pensare attentamente se sia il caso che alcuni di loro debbano essere assunti per un praticantato».

Se non si preoccupano per il Primo Emendamento, si preoccuperanno per la propria carriera, forse. «Il diritto alla libertà di parola è un principio fondamentale della Costituzione degli Stati Uniti», commenta il Wall Street Journal. «Se questi studenti sono così paralizzati dall’ideologia da non poter tollerare un dibattito sulle libertà civili in un campus universitario, il futuro del sistema legale americano è in pericolo». Fino a che il pensiero illiberale tocca cultura e informazione, lo spazio per ricostruire c’è. Se arriva a toccare la legge, no.

Tags: cancel cultureliberta di parolaStati Unitiuniversitàwokeyale
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