Lettere al direttore

«Viviamo bene e i tempi saranno buoni». Leone XIV e lo slogan “tempista”

Di Emanuele Boffi
14 Maggio 2025
Nel suo discorso ai giornalisti il Papa ci ha invitati a cercare quella «verità» che sa farci uscire dalla Torre di Babele. E ci ha dato un titolo perfetto per il nostro giornale
Papa Leone XIV, discorso ai rappresentanti dei media, Aula Paolo VI, Vaticano, 12 maggio 2025 (Foto Ansa)
Papa Leone XIV, discorso ai rappresentanti dei media, Aula Paolo VI, Vaticano, 12 maggio 2025 (Foto Ansa)

Caro direttore, stiamo imparando a conoscere papa Leone XIV e, devo dire, i suoi primi discorsi sono stati straordinari. Quando si è affacciato alla Loggia delle Benedizioni ha parlato della «pace», ma non di una pace sentimentale o come risultato di strategie politiche (che pure sono fondamentali), ma come «pace del Cristo risorto». E anche la sua omelia nella Cappella Sistina è stata potente: un richiamo alla missione in una società che ritiene la fede cristiana «una cosa assurda». «Questo è il mondo che ci è affidato – ha detto Leone XIV – perciò, anche per noi, è essenziale ripetere: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”». Anche il suo discorso ai giornalisti mi è sembrato ricco di spunti, ma qui vi lascio la parola, visto che a voi era rivolto.
Mirko Dellicarri

Caro Mirko, condivido le tue impressioni. Leone XIV ha stupito tutti per la chiarezza e per la profondità delle sue parole, e ce ne è bisogno in tempi confusi, anche dentro nella Chiesa (la «Church of maybe», la Chiesa del forse, come l’ha definita ieri George Weigel in un’intervista al Corriere). Bello anche il richiamo a cercare la «verità» per «promuovere una comunicazione capace di farci uscire dalla “torre di Babele”». Soprattutto, abbiamo trovata straordinaria la citazione di sant’Agostino, quando ha detto: «Viviamo tempi difficili da percorrere e da raccontare, che rappresentano una sfida per tutti noi e che non dobbiamo fuggire. Al contrario, essi chiedono a ciascuno, nei nostri diversi ruoli e servizi, di non cedere mai alla mediocrità. La Chiesa deve accettare la sfida del tempo e, allo stesso modo, non possono esistere una comunicazione e un giornalismo fuori dal tempo e dalla storia. Come ci ricorda sant’Agostino, che diceva: “Viviamo bene e i tempi saranno buoni” (cfr Discorso 311). Noi siamo i tempi». Scherzando, ma non troppo, ieri in redazione ci dicevamo: il Papa ci ha detto quale deve essere il nostro impegno di «operatori di pace» e ci ha dato il titolo per la nostra prossima campagna di promozione.

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Se ogni vera riforma, come ebbe a dire Benedetto XVI nello storico discorso alla Curia del 22 dicembre 2005, è sempre un rinnovamento nella continuità e mai rottura (tanto meno rivoluzione), le parole e i gesti di Leone XIV nel suo presentarsi alla Chiesa e al mondo lasciano già intravedere una ben precisa direzione di marcia. Quella appunto di un pontificato prevedibilmente in continuità con quello di Francesco per l’attenzione alle questioni sociali che la scelta del nome Leone indica, ma allo stesso tempo di discontinuità per un più deciso ancoraggio a ciò che è e resta il proprium del cattolicesimo. Che non sono, appunto, le questioni sociali, ma la salvezza delle anime (salus animarum suprema lex). A colpire in tal senso non sono stati soltanto i gesti, comunque non derubricabili a dettagli di poco conto dal momento che nella Chiesa la forma è sostanza, come ad esempio l’essersi affacciato alla Loggia delle Benedizioni con indosso i paramenti papali o l’aver salutato la folla non con un semplice “buonasera”, ma con “la pace sia con tutti voi”; quanto e soprattutto il discorso pronunciato. Dove se pure il tema della pace era predominante, non si trattava certo della pace “come la dà il mondo”, per rifarci ancora alle parole di Gesù. Un discorso insomma che è apparso fin da subito squisitamente teo-logico, ossia centrato in e su Dio, e su Cristo. Dio e Cristo che non a caso Leone XIV ha citato complessivamente ben quindici volte, mentre nel primo saluto di Francesco, erano del tutto assenti. E dove c’era invece il richiamo ad una non meglio precisata (appunto perchè assente la cornice teologica) “fratellanza”, fatto che spinse niente meno che la massoneria, fatto mai accaduto prima, ad applaudire  all’elezione di Bergoglio (e si può esser certi fin d’ora che non accadrà per quella di Leone XIV). Piccoli indizi di un più che salutare cambio di prospettiva per una Chiesa che ha urgente bisogno di tornare a cercare prima le cose di lassù, poi quelle di quaggiù. 
Luca Del Pozzo

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L’articolo del prof. Vito Mancuso, lungi dall’essere una riflessione teologica rigorosa, si configura come un’operazione ideologica che maschera, sotto un linguaggio apparentemente profondo, l’adesione a un paradigma filosofico radicalmente incompatibile con il cristianesimo. L’errore fondamentale risiede nell’assunzione di una visione della verità come tensione irrisolta o conciliazione dialettica degli opposti. Ciò che Mancuso celebra come “complexio oppositorum” non è l’analogia dell’essere né l’unità nella distinzione propria della metafisica tomista, bensì un principio di sintesi relativista, in cui l’opposizione non è giudicata ma inglobata e, quindi, svuotata di contenuto. Il cristianesimo, invece, è fondato sull’assolutezza dell’essere e sull’identità della verità con l’Essere stesso: “Ego sum qui sum” (Cfr. Es, 3,14). In questa prospettiva, la verità non è ricerca aperta al molteplice senza criterio, ma è adeguazione dell’intelletto all’essere, secondo l’insegnamento di Aristotele e Tommaso. L’unità non nasce dalla fusione del contraddittorio, quanto dalla subordinazione delle parti a un principio superiore. È questo che fonda l’ordine reale del cosmo e dell’intelligenza. La proposta di Mancuso dissolve, invece, l’ordine nell’indeterminato, confondendo la trascendenza con l’inesprimibile e la fede con una sensibilità estetico-esistenziale. L’elogio dell’ateo “nobilmente pensoso” è solo il corollario di questa visione: l’ateo diventa non colui che nega Dio, bensí una figura addirittura paradigmatica del pensiero autentico, perché instabile, inquieto, non dogmatico. Tuttavia, si dimentica che l’ateismo, nella sua essenza, non è solo un fatto psicologico o esistenziale, ma un rifiuto ontologico dell’atto di essere come dono. È la volontà di fondare l’essere sul nulla, la ragione su se stessa, la libertà sull’indeterminazione. È un atto, per così dire, antimetafisico. Perciò non può essere assunto come figura del pensiero, ma solo come cifra della sua decadenza.

La fede non nasce dal deserto interiore o dalla nobile incertezza, ma dalla grazia che illumina l’intelligenza e muove la volontà verso il vero e il bene. Dire che la religione deve “risvegliare l’umanità” e “non possederla” equivale, in fondo, a negare che la verità abbia una forma storica, visibile, sacramentale. Ma questa è precisamente l’essenza dell’incarnazione: la verità si è fatta carne. E la Chiesa non è una tra le tante espressioni spirituali dell’umanità, bensì il corpus veritatis, perché fondata sul Logos fatto uomo. Qualunque discorso che la riduca a simbolo dell’apertura infinita, senza criterio, tradisce la logica dell’essere. In conclusione, l’articolo di Mancuso è costruito sulla negazione del principio di non contraddizione e sul rifiuto dell’ordine finalistico della realtà. È il riflesso tipico di una gnosi contemporanea che preferisce l’indefinito al definito, il possibile al reale, l’esperienza soggettiva alla verità oggettiva. Ora, “veritas non quaeritur in se ipsis”, come insegna  Agostino, “sed in illo uno sunt unum” (che, poi, é il motto del nuovo pontefice Leone XIV): la verità non nasce dall’uomo che pensa, bensí dall’essere che si dona. E questo essere ha parlato una volta per sempre in Cristo.
Daniele Trabucco
Aldo Rocco Vitale

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