Uno spettro si aggira per le borse

Di Alan Patarga
13 Agosto 2017
È il fantasma di «una bolla di proporzioni astronomiche». Chi se la sente di rischiare di mandare l’Occidente intero in deflazione cronica?

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – C’è Peter Boockvar, capo analista di Lindsey Group, che non ci gira intorno: «Quello che sappiamo è che ci troviamo nel bel mezzo di una bolla epica di proporzioni astronomiche. (…) Le misure di stimolo monetario delle banche centrali stanno distruggendo la redditività delle società del credito e magari un giorno Draghi e Kuroda (il governatore della Banca del Giappone, ndr) si renderanno conto di aver commesso un errore e metteranno fine al regime dei tassi zero o negativi». Steve Ballmer, ex amministratore delegato di Microsoft, qualche giorno fa, scorrendo i rialzi dei principali listini americani a nove mesi dalle elezioni presidenziali (circa il 20 per cento in più il Nasdaq, poco meno il Dow Jones e lo S&P500), ammetteva: «Fossi un investitore, sarei un po’ preoccupato. Siamo in una bolla? Non saprei. Su questo mi taccio».

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Gli analisti di Bank of America Merrill Lynch lo ripetono dall’inizio dell’anno, e a ogni report appaiono sempre meno cassandre e sempre più realisti: secondo loro, entro la fine del 2017, i mercati sperimenteranno “l’effetto Icaro”, si bruceranno insomma le ali per aver volato troppo in alto. Il fuoco, secondo alcuni, lo appiccheranno i banchieri centrali, che cercano ora una via d’uscita da un labirinto in cui si sono infilati da soli. La troveranno, scommettono molti, terminando o rallentando le loro politiche di stimolo, con tassi d’interesse vicini o pari a zero e programmi di acquisto di titoli di Stato (Quantitative Easing), che hanno caratterizzato questi anni.

Nessuno la metterà mai in questi termini, almeno ufficialmente. Ma si tratta in buona sostanza di scegliere se lasciar crescere ancora una bolla, ritardando il momento della verità, oppure farla scoppiare, sapendo che l’esplosione non sarà indolore. Si spiegano forse così i recenti stop-and-go di Janet Yellen, numero uno della Federal Reserve statunitense, e di Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea. Toni da colomba alternati a prese di posizione (a volte ufficiose, lasciate filtrare per poi essere corrette poco dopo) che segnalano l’incertezza di chi invece dovrebbe dare certezze ai mercati.

Il punto è che anni di Qe hanno portato alla scarsità sul mercato di titoli sicuri e a buon rendimento (ora in pancia, in larga misura, alle quattro principali banche centrali del mondo: Fed, Bce, Banca del Giappone e Banca d’Inghilterra), dirottando chi era in cerca di guadagni sull’equity, il mercato azionario, maggiormente esposto alla volatilità.

Le Borse che salgono quasi senza soluzione di continuità, i tecnici la chiamano situazione BTFATH (Buy The Fucking All Time High), cioè quando si continua ad acquistare azioni anche se queste sono ai massimi, contro la regola che vorrebbe si acquistasse a buon prezzo per poi rivendere quando le quotazioni sono al rialzo.

Effetto Trump o effetto Giappone?
Oggi buona parte delle società del listino S&P500, a Wall Street, trattano a una capitalizzazione mediamente tripla rispetto al valore del loro patrimonio. Una stortura che non si vedeva dai tempi della bolla dei mutui subprime (ovviamente prima che scoppiasse). E Donald Trump, che in campagna elettorale aveva attaccato Yellen, accusandola di aver creato una «big, fat, ugly bubble», una bolla grossa grassa e brutta, dopo l’arrivo alla Casa Bianca ha mollato il bersaglio, finendo per attribuirsi il rialzo dei mercati, il cosiddetto “effetto Trump”, anziché cercare di smontarlo. Si è affidato, per la politica economica, a “ragazzi” di Wall Street come Steven Mnuchin, Wilbur Ross e a quello che per molti sarà il prossimo presidente della Fed, Gary Cohn. Ha dato le chiavi della politica economica, cioè, a chi da questa bolla ha finora tratto guadagno. Janet Yellen, così, resta in sella, indecisa se proseguire nell’annunciato rialzo dei tassi per sgonfiare la bolla, o se continuare a somministrare metadone al drogato, spaventata da chi mette in guardia da una recessione prossima ventura. C’è chi parla di effetto Giappone, non soltanto per l’America ma per l’Occidente intero, destinato a una sostanziale deflazione cronica.

Alzare i tassi potrebbe portare all’interruzione del circolo vizioso, ma i prezzi da pagare sarebbero due: una correzione per i mercati azionari, presumibilmente molto forte, e l’esplosione della bolla creditizia (ancora) negli Stati Uniti, dove l’indebitamento delle famiglie, complici i tassi bassissimi, è tornato a livelli di guardia, specialmente per l’acquisto di autoveicoli e per il pagamento degli studi universitari dei giovani statunitensi, tradizionalmente molto onerosi. Al tempo stesso, il capitombolo in Borsa rischia di essere rovinoso: il titolo Snap, casa-madre del social network Snapchat, ha mostrato tutta la debolezza di Ipo (Initial public offerings, offerte pubbliche iniziali) nate più sull’onda del marketing che sui fondamentali delle aziende che decidono di quotarsi. In quattro mesi, Snap ha perso 15 miliardi di dollari di valore. È un caso isolato? Non proprio. E non si tratta soltanto dei titoli tecnologici, o dei mercati tradizionali.

Monete virtuali come funghi
Il caso delle monete virtuali è quello forse più preoccupante, sebbene Goldman Sachs e altri advisor continuino a suggerire l’acquisto di criptovalute, perché (al momento) altamente redditizio. Le più famose sono Bitcoin ed Ethereum, ma ne nascono ogni settimana di nuove: si calcola che ad oggi siano oltre 800, per un valore stimato di almeno 82 miliardi di dollari. Nascono e proliferano nel mercato delle Ico (Initial coin offerings), che sta diventando una sorta di Eldorado per le start-up, le società giovani in cerca di capitali: qualche settimana fa la società Tezos ha raccolto 200 milioni di dollari in brevissimo tempo. Senza burocrazia, certo, ma anche senza una Sec (la Consob americana) a controllare e garantire affidabilità e trasparenza. Si finanziano così anche start-up che sono per lo più idee brillanti senza uno straccio di business plan, e si finanziano così pure gli hacker: come quelli che sono riusciti a infiltrarsi nell’Ico di Coindash e che in tre minuti hanno fatto scomparire 7 milioni di dollari che incauti investitori telematici avevano già deciso di sborsare.

E al di là di tutto c’è la velocità di un mercato che sfugge ormai al controllo umano. Tra Etf, roboadvisor e sistemi di “high frequency trading”, ossia la contrattazione di titoli effettuata attraverso algoritmi, che promette di sfruttare al massimo la rapidità per massimizzare i profitti. Meraviglie della tecnica? Forse no, se la copertina di un recente numero di Barron’s, il settimanale del Wall Street Journal, aveva come titolo “The Machine Driven Market”, chiarendo che nello scontro tra uomo e macchina era ormai questa a prevalere, almeno nel trading. È come dire che stiamo viaggiando su un treno ad alta velocità con il pilota automatico, incapace di fermarsi se qualcosa va storto rispetto ai piani.

@apatarga

Foto Ansa

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