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Vent’anni dopo l’11 settembre l’Occidente si trova al punto di partenza

Oltre l'Afghanistan. Il fallimento della strategia americana in Medio Oriente ha rafforzato gli islamisti. Non basta "vendere" valori

Amedeo Lascaris
13/09/2021 - 2:00
Esteri
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New York, un uomo fotografa il memoriale delle vittime dell'11 settembre

L’11 settembre 2021 non verrà solo ricordato come il 20mo anniversario degli attentati al World Trade Center, ma come il giorno in cui l’Occidente – culla del superomismo post-moderno e della cultura del successo – si è avvicinato di più a un mondo, quello islamico, in cui la celebrazione delle sconfitte o dei fatti di sangue ha una valenza forse superiore alla vittoria.

L’utopia di una soluzione “allo specchio”

Dopo la caduta dell’Afghanistan nelle mani dei talebani lo scorso 15 agosto, da Roma a New York politici, esperti, media e persone comuni hanno inondato di commenti trasmissioni televisive, giornali e soprattutto i social media, gli stessi utilizzati dagli insorti per “raccontare” il loro ritorno e annunciare la loro vittoria sul nemico occidentale. La domanda più comune è stata: come è stato possibile? La sconfitta di un Occidente a trazione Stati Uniti nella più lunga campagna militare della storia nata proprio per contrastare il terrorismo alla base dell’11 settembre ha radici profonde e non dipende solamente dagli errori commessi nell’ultimo anno e, forse, o degli ultimi 20 anni. La fine della missione in Afghanistan pone tra le utopie azioni le mirate a influenzare un mondo altro da sé con soluzioni “allo specchio” che prevedono l’applicazione di un programma adottato in modo sempre uguale frutto più di una mentalità che “vende” valori invece di trasmetterli.

Nel suo magistrale saggio Shah in Shah, il giornalista polacco Ryszard Kapuscinski, scriveva nel 1982 raccontando la Rivoluzione islamica iraniana, considerata la prima disfatta Usa sul fronte islamico: «L’Oriente è l’Oriente e l’Occidente è l’Occidente: due mondi che mai s’incontreranno. Mai s’incontreranno e mai si capiranno: l’Asia rigetterà sempre ogni trapianto europeo come un corpo estraneo e niente potrà cambiare le cose, per quanto gli europei si scandalizzino.

In Europa ogni nuova epoca è diversa, la nuova scalza la vecchia, la terra si purifica periodicamente del suo passato e l’uomo del nostro secolo fatica a comprendere i suoi predecessori. Qui no: qui il passato è vitale come il presente, l’era crudele e imprevedibile della pietra scheggiata coesiste con la fredda e programmabile era elettronica, l’una e l’altra convivono nello stesso individuo, che è per metà discendente di Gengis Khan e per metà nipotino di Edison, sempre che gli sia capitato di sentirne parlare».

L’Occidente non comprende se stesso

L’esperienza iraniana non è per certi versi dissimile da altre avvenute in tempi più recenti: Afghanistan, Iraq, Siria, Libia e altre crisi in cui l’approccio per tentare di modificare lo status quo sono apparse vane. Gli errori riguardano non tanto la pianificazione, aspetti operativi o finanziamenti, quanto l’assenza di una comprensione Occidentale dell’altro frutto di una mancata comprensione anzitutto di sé e della propria storia. In Afghanistan, secondo diversi analisti, il principale errore è stata la mancata realizzazione di istituzioni in grado di portare avanti la ricostruzione e generare sviluppo.

Secondo il documento Cosa dobbiamo imparare: lezioni da vent’anni di ricostruzione dell’Afghanistan, pubblicato poco dopo la conquista di Kabul dall’ispettore generale speciale per la ricostruzione dell’Afghanistan (Sigar) e che analizza 13 anni di attività, molte delle istituzioni e dei progetti infrastrutturali costruiti dagli Stati Uniti non erano sostenibili, il personale statunitense in Afghanistan era spesso non qualificato e scarsamente addestrato, le agenzie statunitensi stavano lottando per misurare efficacemente i risultati mentre a volte si affidavano a dati traballanti per affermare il successo. Quanto affermato dal Sigar può essere esteso ad altre operazioni, sia militari che politiche condotte non solo dagli Stati Uniti, ma anche dai paesi europei, che hanno mostrato tutta la loro fragilità nonostante le enormi risorse spese.

Un approccio sbagliato

Dopo l’Afghanistan, l’altra grande operazione è stata la guerra in Iraq del 2003, conclusasi con la disfatta del regime di Saddam Hussein, ma causa di una guerra civile che ha reso il paese un teatro di scontro per i principali gruppi armati e potenze regionali. Anche in Iraq, gli Stati Uniti e i membri della Coalizione, hanno speso miliardi di dollari per trasferire il proprio modello senza riuscire a cambiare lo status quo o a entrare in dialogo con la popolazione.

Come osservato da diversi analisti, l’approccio era affrontare la minaccia del giorno, piuttosto che sulla creazione di unità, sviluppo e capacità di difesa dell’Iraq a lungo termine, con il risultato che valori tanto proclamati come “uguaglianza, inclusione, democrazia” sono rimasti anche in questo caso solo sulla carta e mai realmente percepite dalla popolazione, a parte rari casi.

Gli errori di Obama

Il risultato è stata la caduta di Mosul nel 2014 e gran parte della popolazione sunnita, vessata dalla maggioranza sciita, che ha ingrossato le fila dello Stato islamico, con le minoranze cristiane, le uniche che paradossalmente condividevano i valori propugnati dalle forze straniere, abbandonate a loro stesse. In Siria, l’approccio dell’èra di Barack Obama è stato più soft, ma ha prodotto gli stessi danni, frutto delle medesime incomprensioni e sottovalutazioni.

Più preoccupato di differenziarsi dal predecessore George W. Bush, Obama ha impostato la politica Usa sulla fine dello scontro di civiltà, favorendo un “dialogo” vuoto con l’Islam, anche gli elementi più radicali come Fratelli musulmani e salafiti, e appoggiando nel 2011 – dieci anni dopo gli attacchi alle Torri gemelle – le primavere arabe contro i regimi regionali di impostazione nazionalista, osservando sempre con ottica occidentale un fenomeno degli oppressi contro i potenti, che traslato nel mondo islamico ha un potenziale pericoloso: risveglia afflati religiosi antichi di secoli.

L’arrivo di Russia, Turchia e Emirati

L’idea di applicare un metodo collaudato in altri paesi negli anni della Guerra fredda e di ascoltare gli esuli dei regimi residenti negli Stati Uniti o in Europa, e Paesi come il Qatar – protagonista anche della vicenda afgana – ha portato alla dissoluzione di regimi dispostici, ma non islamisti, con movimenti a trazione Fratelli musulmani pronti a fare la rivoluzione islamica. Il risultato a dieci anni dalle primavere arabe ha portato in Medio Oriente attori che ben conoscono la regione, a differenza di Usa ed Europa, come Russia, Turchia ed Emirati.

L’epilogo di questa stagione collaterale al ventennio afgano è rappresentato da est a ovest da un mutamento inverso: in Siria il presidente Bashar al Assad grazie all’appoggio della Russia e del benestare dei paesi del Golfo ha ormai in mano gran parte del paese e ora si appresta ad aprire i propri confini per consentire al devastato Libano di poter ricevere da Egitto e Giordania il gas e l’elettricità necessari per la sua sopravvivenza; in Egitto governa ormai dal 2014 Abdel Fattah al Sisi, con il paese ritornato regime di stampo militarista e attore imprescindibile per la stabilità regionale.

In Libia, dopo l’intervento di Francia e Regno Unito avallato con riluttanza da Obama, dopo dieci anni di guerra civile Saif al Islam Gheddafi, figlio del defunto rais Muammar Gheddafi, è ormai ritornato, anche se nell’ombra nell’agone politico, con diversi esponenti e famigliari del vecchio regime graziati dalle autorità ad interim; in Tunisia, la patria del percorso democratico arabo, il dispotismo mostrato dal movimento islamista Ennahda in questi dieci anni ha portato ad uno stallo istituzionale e alla sospensione delle istituzioni democratiche, con il presidente Kais Saied che ha sospeso dal 25 luglio attività parlamentari e governo.

I cambi di regime e il ritorno di Al Qaeda

Oltre alle avventure mediorientali e ai cambi di regime, la caduta dell’Afghanistan sotto il regime dei talebani ha riportato in auge nomi che fino a qualche mese fa sembravano impensabili: Al Qaeda, rete Haqqani, Stato islamico. I primi due formano la spina dorsale del regime talebano, mentre il secondo è ritornato in auge nella regione e con un’alta probabilità di nuovi attentati in Europa. Le notizie di possibili attacchi giungono proprio nei giorni in cui Parigi ospita nella nuova aula bunker costruita ad hoc a palazzo di giustizia di Parigi, il maxiprocesso contro gli autori delle stragi terroristiche del 13 novembre 2015 allo Stade de France, al Bataclan e davanti ai bistrot parigini, considerato l’11 settembre europeo.

La mancata comprensione occidentale che guarda all’islam e in generale all’Asia forte di principi che anche in patria sono divenuti slogan svuotati del loro senso ultimo rende senza soluzione di continuità questi 20 anni: a livello globale il numero delle vittime di attentati terroristici è pari a oltre 5mila morti in quasi 900 attentati di stampo jihadista nel 2019. Nell’ultimo decennio il numero di attacchi terroristici di matrice jihadista è aumentato di 6 volte rispetto al decennio precedente e in particolare, è cresciuto il pericolo in Asia e Africa Sub Sahariana dove si verifica il 60 per cento degli attacchi, contro il 18 per cento di fine anni 90’. Rispetto al 2001 i militanti islamisti sunniti sono aumentati in 20 anni di quattro volte e restano inoltre attivi quasi 100 gruppi estremisti islamici.

Foto Ansa

Tags: 11 settembreafghanistanal qaedaIraqIsislibiatalebaniTerrorismo IslamicoUSA
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