Una nazione, tre conflitti. L’eroica quotidianità dei cristiani in Nigeria

Di Rodolfo Casadei
27 Ottobre 2012
Istituzioni contro jihadisti. Nomadi fulani contro contadini berom. Settlers contro native people. Non sono solo i terroristi di Boko Haram a fare stragi a Jos. Reportage

Reportage da Jos (Nigeria). La Peugeot 405 color amaranto davanti a noi rallenta all’improvviso. Riparte nervosa. Oscilla incerta sulla carreggiata, poi imbocca lo sterrato sulla sinistra, fra schizzi di fango rosso e cespi di erba alta che si sposta al passaggio dei veicoli. Pochi minuti e uno spiazzo si apre a lasciar scorgere due-tre file di edifici a un piano e altrettante di colline che si alzano gradualmente sullo sfondo. Sotto una veranda sei-sette soldati poltriscono seduti o appoggiati alla parete. Li salutiamo con deferenza, contraccambiano con gesti misurati. Gli occhi vuoti delle finestre mostrano interni squallidi, inabitabili. Alla spicciolata da tutte le direzioni si avvicinano a noi uomini stanchi. Sguardi avviliti, rassegnati, spaventati. Tranne quello del loro leader, Patrick, che qui ci ha condotti: al cosiddetto campo per sfollati di Riyom, la località a mezz’ora di auto da Jos sul cui territorio rurale da quattro giorni si ripetono violenze efferate. I nomadi fulani hanno assalito nottetempo le case dei contadini berom uccidendo tutti quelli che trovavano dentro. Quando fanno così, vuol dire che qualcuno gli ha ucciso il giorno prima qualche mucca dei loro armenti, che invadono senza chiedere il permesso i campi e le raccolte d’acqua dei coltivatori. «Uccidi la moglie a un fulani, e potrai ancora metterti d’accordo con lui, se gli paghi il danno che hai fatto. Ma uccidigli le mucche, e non avrai scampo: sterminerà te e tutta la tua famiglia», spiega Patrick. Ma può essere anche solo un pretesto inventato per occupare l’area fin tanto che ci sarà pascolo per i loro animali, in questa fine della stagione delle piogge: il giorno dopo la strage il panico spinge i vicini lontano dai loro poderi; nelle ore di luce i fulani sparano a casaccio nella direzione in cui i contadini sono fuggiti; altro panico, e i berom si allontanano ancora di più dalle loro proprietà; scende la notte, i fulani assaltano altre case, e lo schema che porta all’occupazione di fette sempre più grandi di territorio si ripete.

La strage nel villaggio
La ventina di uomini che si è raccolta intorno a noi è il gruppo degli sfollati. Mogli e figli sono andati a stare coi parenti, loro sono qui quasi digiuni a tenere d’occhio quel che succede alle loro proprietà distanti pochi chilometri. Patrick tira fuori le foto che ha scattato mercoledì mattina, prima di raccogliere i 14 cadaveri di quella notte e seppellirli in una fossa comune dopo un frettoloso funerale. Orrore allo stato puro. Ci sono bambini fra i cinque e i dieci anni sdraiati in pose varie sui tappeti di casa. Angeli dormienti, se non fosse per il sangue nero rappreso sui vestiti, o macchie di colore rosso sul volto. Una madre a torso nudo contro l’angolo di una parete di casa, dal volto scende una cascata scura coagulata su collo e torace, i seni pietosamente ricoperti dalle teste dei suoi due bambini, un bebè e uno più grande. Uccisi tutti insieme, mentre i figli cercavano protezione contro il corpo della mamma e la mamma tentava di ripararli. Le braccia sono ricadute e lasciano scoperte le loro facce sporche. «E i militari scrivono che gli attacchi sono da una parte e dall’altra, che noi stiamo impedendo ai fulani di ritirarsi!», inveisce Patrick. «Ho visto i loro rapporti, dicono che la maggior parte delle vittime sono fulani!». Gli astanti commentano con incredulità, ma stranamente non c’è nessun accenno di protesta. In lontananza echeggiano rombi, non si capisce se di tuoni o di armi da fuoco. Uno degli accompagnatori si avvicina a Patrick e gli dice qualcosa all’orecchio. La sua espressione diventa ancora più cupa. «Hanno ripreso a sparare qui vicino, non è sicuro che la strada asfaltata da cui siamo arrivati adesso sia percorribile, potremmo dover aspettare qui. E non è detto che non decidano di attaccare anche da questa parte». «Ci sono i soldati», gli facciamo notare, «perché dovrebbero osare tanto?». Ci fulmina: «Di questi soldati non ci si può fidare: fra loro ci sono alcuni fulani. E poi è capitato altre volte di scoprire che i militari avevano ricevuto denaro dagli assalitori per non opporre resistenza: ai primi colpi potrebbero ritirarsi e lasciarci in balìa di chi attacca».

I conflitti nel Middle Belt
I soldati sono a una ventina di metri, si spera che non abbiano sentito. Noi si torna dopo sbrigativi convenevoli alle auto e si imbocca rapidamente prima lo sterrato e poi l’asfalto, scrutando ansiosamente intorno. Un chilometro appena, e notiamo che sul ciglio della strada arriva gente che trascina borsoni e valigie: un’altra comunità sta abbandonando il suo villaggio perché i colpi di fucile cadono sempre più vicini. Le figure in movimento rimpiccioliscono attraverso il lunotto posteriore mentre ci allontaniamo da loro. E da un ordinario sabato di paura fra i campi e gli stagni di Riyom, sud di Jos.

Qui nel Middle Belt, nella fascia centrale di stati che separano il Sud dal Nord della Nigeria, si sovrappongono tre conflitti. Quello dei Boko Haram, il più recente, che vede l’enigmatica compagine jihadista nata nel Borno (estremo nord-est della Nigeria) attaccare stazioni di polizia, caserme, simboli istituzionali nazionali e internazionali come la sede dell’Onu ad Abuja, autorità islamiche percepite come troppo allineate ai governi locali o a quello federale, e chiese cristiane di ogni denominazione, bersaglio prediletto di autobomba pilotate sull’obiettivo da uno o due attentatori suicidi. Per odio teologico contro i cristiani, per coerenza con l’estremismo islamista che mira a ripulire il centro-nord della Nigeria dalla presenza di fedi diverse da quella musulmana, dicono alcuni. Per l’obiettivo strategico di suscitare una guerra civile su scala nazionale fra cristiani e musulmani e provocare la rottura del paese. Perché manipolati da politici e militari nordisti che vogliono mettere in difficoltà il presidente sudista Goodluck Jonathan, dicono altri. Perché gli attacchi alle chiese hanno un ritorno pubblicitario enorme per la causa jihadista nonostante il biasimo universale, attirano reclute e alzano la posta di un’eventuale trattativa. Comunque sia, l’unica barriera fra le autobomba dei Boko Haram e le chiese bersaglio predestinato sono le pattuglie di boy-scout che, tesi come corde di violino ma fieri in volto dall’alto dei loro sedici-diciotto anni, la domenica mattina nelle loro divise verdoline e pantaloni corti fermano le auto a distanza di sicurezza dalle chiese e controllano i bagagliai, mentre i militari restano seduti a distanza di sicurezza sui muretti dei viali: visto coi nostri occhi.

Il secondo conflitto è quello che oppone allevatori musulmani fulani e contadini cristiani berom o di altre etnie minori. Riguarda lo sfruttamento di terre e acque, per le quali la competizione si fa sempre più feroce man mano che la loro disponibilità si riduce per l’urbanizzazione crescente, la pressione demografica, l’erosione naturale dei terreni. È un conflitto fatto di agguati e rappresaglie implacabili, dove i fulani quasi sempre segnano più punti nella classifica della crudeltà perché guerrieri per nascita e per formazione. Anche edifici ecclesiastici e moschee fanno le spese di questa rivalità consolidata.

Nel mirino chiese e moschee
Il terzo conflitto si svolge nel mondo urbano, e ha contenuti etnico-politici molto evidenti: oppone settlers e native people, le due categorie in cui le leggi dei 36 stati della Federazione nigeriana suddividono i loro abitanti, attribuendo ai secondi maggiori diritti rispetto ai primi per quanto riguarda proprietà fondiarie, accesso ai servizi pubblici, opportunità formative, borse di studio, posti nell’amministrazione pubblica, eccetera. A Jos sono considerati settlers gli hausa, beneficiano invece dei privilegi degli indigeni berom, anaguta e afizere. I primi sono musulmani, i secondi cristiani. Quando il governo centrale tenta di nominare musulmani a cariche di un qualche peso, i cristiani gridano all’invasione islamica e insorgono; quando le elezioni locali puntualmente puniscono i loro candidati, i musulmani scendono in strada e provocano scontri; delle rappresaglie fra le due parti sempre fanno le spese chiese e moschee.

Com’è evidente, la religione in sé non è la causa prima dei conflitti suddetti, ma è certamente la categoria principale attorno a cui si organizzano gli schieramenti in lotta. E non solo per l’abilità dei politici di un campo e dell’altro nello strumentalizzarla per crearsi una base di consenso. «La religione in questo paese è una questione di identità molto sentita, perché permette alle persone e ai gruppi di identificarsi con un gruppo più ampio di quello tribale o familiare», spiega Sani Suleiman, musulmano hausa, program manager dell’Ufficio Peace building and conflict transformation della Commissione Giustizia e pace dell’arcidiocesi cattolica di Jos. «Anche chi non ha un’autentica vita spirituale, anche chi non pratica la morale che la sua confessione gli richiederebbe, ci tiene molto ad affermare la sua appartenenza religiosa, perché si tratta di una grande identità di cui si sente fiero. Dunque chi suscita la violenza per perseguire i suoi obiettivi di potere ricorre principalmente alla religione, perché sa che i conflitti centrati sull’identità sono quelli più duraturi e per i quali è più facile far schierare la gente». La cronaca dà ragione a questa lettura dei fatti: il minimo incidente che oppone un cristiano a un musulmano, la minima contestazione di un esito elettorale è suscettibile di evocare in poche ore schiere contrapposte di migliaia di maschi che assaltano la aree residenziali del gruppo avverso e danno alle fiamme auto ed edifici di culto.

La manodopera dei disordini
Ma c’è un altro decisivo fattore, oltre alla solidarietà identitaria, di cui tenere conto per capire la facilità con cui prendono corpo le violenze di strada: «Se lei guarda fuori dalla mia finestra, vedrà decine di giovani che ciondolano lungo Gomwalk Road senza fare nulla. Loro sono la manodopera dei disordini “a sfondo religioso” che si ripetono in questa città», spiega Becky Adda-Dontoh, consulente dell’Ufficio Peace building della Commissione Giustizia e pace. «La mancanza di educazione e di prospettive di lavoro ne fa il bacino di pesca ideale di politici e mestatori in cerca di sicari. Dovrebbe vedere quando l’auto di qualche personaggio importante rallenta vicino a loro. Tutti corrono sorridendo verso i finestrini, e da dentro una mano allunga banconote da 500 naire. Quando verrà il momento, quei giovani mostreranno la loro gratitudine incendiando e scontrandosi coi sicari del campo avverso». I teppisti vengono reclutati su base etnica e religiosa, con rare ma significative eccezioni: l’allettamento finanziario infrange certe barriere.

«I miei rapporti coi leader religiosi musulmani sono ottimi, posso andare da loro quando voglio ed essere ricevuto con tutti gli onori, così come loro possono fare lo stesso con me», spiega Ignatius Kaigama, l’arcivescovo cattolico di Jos. «Il problema che ci riempie di frustrazione è che noi leader religiosi abbiamo individuato le soluzioni per una pace duratura fra le comunità fondata sulla giustizia, ma non abbiamo gli strumenti per metterle in atto. Noi non abbiamo il potere di modificare le normative che riguardano settlers e nativi, né le risorse finanziarie per creare un fondo che indennizzi i fulani che hanno perso il loro bestiame e i berom che hanno perso le coltivazioni. Queste cose toccherebbero ai politici. Ma i politici non si muovono».

@RodolfoCasadei

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