Un cristiano non “può”, ma “deve” fare una scuola

Di Matteo Foppa Pedretti
19 Maggio 2021
Non si tratta di potere o di libertà. Si tratta di un dovere. Di una convocazione. Di una chiamata alle armi

Premessa: quanto segue avrebbe bisogno di alcune digressioni, di esemplificazioni, forse in certi casi di note che rendano alcuni passaggi meno stretti, meno angusti o impliciti. È solo la mancanza di tempo che mi consiglia di consegnarlo così, poco più di un sommario di un testo che nasce come commento a margine di un articolo (Perché un cristiano “deve” fare una scuola? Di don Antonio Villa), straordinariamente semplice e dirompente.

Se ci fosse qualcuno interessato a scogliere i nodi che vi si trovano, sarei ben lieto di ragionarci insieme. Confido nell’opera di Tempi nel costruire rapporti e compagnia per metterci eventualmente in contatto.

Una bomba di profondità ad alto potenziale

Penso che con giovanile noncuranza don Villa, tra le righe e sul finire del suo ultimo articolo su Tempi, abbia volutamente depositato una bomba ad alto potenziale. Piazzata, come nel film “Armageddon” (indimenticabile blockbuster apocalittico, fracassone e sentimentale con Bruce Willis, Liv Tyler e Ben Affleck. Colonna sonora degli Aerosmith. Pura tamarraggine adrenalinica fine anni ’90…), a una profondità tale che, se fatta brillare, è in grado di spezzare davvero in due lo sfinente dibattito sulla scuola italiana e aprire prospettive nuove.

Perché non è vero che non se ne parla, della scuola. È che si continua a ragionare come se tutta la farragine autoreferenziale, amministrativo-burocratica, ideologica e miseranda della scuola così com’è, considerata come la premessa immodificabile per un discorso “realistico”, fosse davvero “essenziale”. Fosse davvero la “ousia” della scuola, il suo fondamento ontologico.

Non può, ma “deve”

L’innesco della bomba è una domanda. Una domanda che mi interroga quotidianamente. Dalla quale spesso fuggo, come Giona dal suo compito di andare a Ninive, la grande città, ed essere sale sulle ferite. Una domanda semplice: “Perché un cristiano DEVE fare una scuola?”. Non “può”; non “è opportuno che”; non “vuole” o “sarebbe bello facesse”. No. DEVE. Scritto così, tutto maiuscolo.

Non si tratta di potere o di libertà. Si tratta di un dovere. Di una convocazione (in tutti i significati che una etimologia sufficientemente fantasiosa riesce a ispirare…). Di una chiamata alle armi, di un arruolamento nelle “sabaoth” del Signore degli Eserciti (uso la stessa immagine che usa don Villa).

Una prospettiva nuova

Ma questo DEVE, che se preso sul serio come punto di paragone del nostro pensiero sulla scuola sarebbe già una prospettiva nuova (o forse meglio dimenticata da così tanto tempo da sembrarci tale…) e originale (cioè propria dell’origine: “Mandateci in giro nudi ma liberi di educare…”), è in realtà solo la miccia.

Perché le due cariche davvero potenti, che arrivano come inizio di risposta e che aprono a loro volta, come mi prefiggo di mostrare, prospettive e problemi da tempo inesplorati, spostano la questione dal piano dell’etica (ogni DEVE rischia sempre di essere confuso, in questi nostri tempi deboli di pensiero, col “Tu devi” kantiano, esaurendo ogni novità nel mio essere a posto con o mobilitato dalla coscienza…) a quello della cultura. Dell’episteme. Della comprensione dell’uomo, del cosmo e della storia.

1 – continua. Foto Ansa

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