
Un buon partito
New York
«Se Hillary Clinton sarà il candidato del Partito democratico e John McCain quello del Partito repubblicano, McCain la ucciderà». Questo è ciò che mi ha detto un amico legato al Partito democratico quando, prima del Supermartedì, gli ho chiesto chi temessero di più a quel punto della campagna.
Il fatto è che né i repubblicani né i democratici possono vincere le elezioni senza il supporto degli elettori indipendenti, visto che questi rappresentano il 40 per cento di tutta la base elettorale americana (insomma, negli Stati Uniti ci sono più elettori indipendenti che repubblicani o democratici). E i democratici contrari alla candidatura di Hillary Clinton si opponevano alla ex first lady perché sono sempre stati convinti che lei non sarebbe mai stata in grado di conquistare abbastanza voti indipendenti per vincere le presidenziali, specialmente se i repubblicani avessero trovato il modo di superare le proprie divisioni interne e puntare su un candidato molto attraente per gli indipendenti. Cioè appunto il senatore McCain.
McCain, infatti, non è certamente il candidato preferito dai repubblicani conservatori. In aree come le riforme finanziarie, il surriscaldamento globale, gli interrogatori dei terroristi catturati e l’immigrazione, per esempio, ha rotto con la base conservatrice del Partito repubblicano e molti esperti conservatori sono suoi strenui oppositori. Anche su tematiche come la legislazione pro-life e l’opposizione ai matrimoni tra persone dello stesso sesso sono in molti a dubitare del suo entusiasmo per la causa. Pensano (probabilmente a ragione) che McCain semplicemente non sia interessato a una guerra culturale, anche se i suoi precedenti di voto in questi campi sono piuttosto conservatori. Ricordano come alle ultime elezioni si dicesse preoccupato dall’idea di trasformare la religione in una questione politica.
La massima attrazione sui conservatori McCain la esercita con la sua posizione sulla sicurezza nazionale e sulla guerra in Iraq. McCain, infatti, si è assunto un grosso rischio politico supportando l’invio di nuove truppe proprio quando l’opinione pubblica nazionale sosteneva la necessità di ridurle e di ritirarsi. Mentre i democratici parlavano dell’Iraq come di una distrazione dalla guerra al terrore, McCain ribatteva che al Qaeda è presente in Iraq, ed è responsabile di gran parte dei focolai di guerra ancora accesi. Sosteneva anche che uno Stato fallito in Iraq avrebbe rappresentato un terreno fertile per i terroristi e avrebbe destabilizzato l’intera regione. Da principio molti pensarono che questa posizione avrebbe ucciso le sue chance di diventare presidente, tanto che a metà estate i media già cominciavano a spuntare il suo nome dalla lista dei papabili. Poi la sua popolarità è cresciuta proprio grazie al chiaro successo ottenuto dal “surge”.
Oltre alla guerra culturale, però, un altro tema chiave per i conservatori è l’immigrazione. E anche in questo ambito McCain ha mantenuto posizioni che hanno ridotto di molto il suo appeal nei confronti della base conservatrice. McCain non usa la retorica anti-immigrazione della maggior parte dei repubblicani. Ad esempio non dice che tutti i clandestini devono essere espulsi, e proprio per questo è accusato di supportare “l’amnistia dell’armadio”. Quello che dice è che sarebbe impossibile espellere dodici milioni di messicani, e che le famiglie degli immigrati illegali che hanno deciso di arruolarsi nell’esercito non devono essere espulse. In più sostiene un piano molto rigoroso e lungo per la normalizzazione di alcuni clandestini più virtuosi già presenti sul territorio nazionale.
Comunque McCain è l’unico candidato le cui caratteristiche sono punti deboli alle primarie, dove non ispirano fiducia ai conservatori, ma si trasformeranno in punti di forza alle elezioni nazionali, dove dovrà rivolgersi agli elettori indipendenti.
Tra patriottismo e cambiamento
Quindi a che punto siamo nel processo di elezione del presidente degli Stati Uniti d’America? I conservatori repubblicani devono decidere se credere o meno in McCain. In più devono distogliere l’attenzione del pubblico dalla guerra o convincere gli elettori che la situazione laggiù è migliorata. Finora la guerra non è stata un grande argomento della campagna elettorale, ed è difficile capire perché gli americani abbiano moderato l’insistenza sul ritiro delle truppe. Così la situazione attuale favorisce McCain ma è difficile dire cosa accadrà dopo che il processo di nomina sarà completato.
Dall’altra parte, mentre l’opposizione alla guerra si sposta dal centro dell’attenzione, aiutando McCain, è emerso un nuovo argomento che rappresenta un problema per lui, e cioè il tema del “cambiamento”. È difficile prevedere come McCain possa rispondere al desiderio della gente di una nuova Camelot. La sua forza sta proprio nell’esperienza e nella sua salda fedeltà ai princìpi. McCain è un uomo che ha dimostrato di essere un leader forte di indubbio patriottismo. Tutto ciò, così come la sua età, rende difficoltoso gestire una campagna la cui richiesta popolare principale è quella del cambiamento. Anche Hillary Clinton ha questo problema (il New Yorker lo ha definito “gap di ispirazione”), soprattutto da quando i Clinton hanno sorpreso molti con la loro reazione rabbiosa davanti alla popolarità di Obama. Il quale, per parte sua, nel frattempo, forte del supporto di Caroline Kennedy e del senatore Edward Kennedy, i guardiani della leggenda di Camelot, ha continuato a giocare brillantemente la carta del cambiamento. Con il risultato di indebolire l’immagine di Hillary come possibile sfidante di McCain. Il “gap di ispirazione”, infatti, ha molta meno influenza sul senatore dell’Arizona (che può mettere a frutto la sua storia di prigioniero di guerra in Vietnam). E questo ha spinto molti repubblicani a decidere di stringersi attorno alla sua candidatura.
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