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La famiglia è il vero centro di accoglienza dell’umanità ferita

«L'ospitalità fondata sullo slancio di cuore e il posto-letto non regge. Per aprire le porte di casa ci vuole una compagnia. E non stare soli significa un inizio di comunità». Intervista a Luca Sommacal, presidente Famiglie per l'accoglienza

Caterina Giojelli
25/04/2022 - 6:30
Società
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Tutto ha inizio con le estati trascorse dai primi “deti nadezhdy”, i “figli della speranza”, nel 2015 in Italia: non potevano che chiamarli così, i bambini dei rifugiati del Donbass. Costretti dalla guerra a sfollare ad est, migliaia di profughi avevano chiesto aiuto a Kiev, Karkiv, dove dall’amicizia tra comunità ortodosse e alcuni italiani era nata una bella opera di accoglienza. I bambini erano così tornati ad avere un letto, un tetto, un posto sicuro, ma questo non sarebbe bastato a rabberciare l’umano, pensavano gli amici che li avevano accolti: i piccoli avevano vissuto la feroce disgregazione delle proprie famiglie, molti avevano perso un genitore e con lui una quotidianità fatta di piccoli gesti, ritmi, stare insieme, sedersi a tavola. Bisognava restituire loro l’esperienza della vita familiare, la bellezza, e fiducia, nel rapporto umano.

«Il progetto “Figli della speranza” nasce così, con una richiesta di aiuto dagli amici di Kiev e Karkiv che coinvolge le nostre famiglie in Italia – spiega a Tempi Luca Sommacal, presidente di Famiglie per l’accoglienza -. Lo scopo non era allontanarli dall’Ucraina, ma offrire la questi bambini la possibilità di vivere un’esperienza di vita familiare che, eravamo certi, avrebbe dato i suoi frutti appena tornati a casa. E così è stato. Nel 2015 arrivano i primi cinque ragazzini, nel 2019 sono settanta. Sono stati loro, una volta rientrati, a raccontare di quell’esperienza positiva e bella vissuta in Italia e portare nelle loro case una ventata di speranza».

E cosa avevano trovato in Italia, un rifugio?
Al contrario, un luogo in cui non dovevano nascondersi, non un riparo dalla vita, ma un luogo di vita. Banalmente una famiglia con cui sedersi a tavola: per molti di loro era una novità condividere un momento seduti con i genitori e i fratelli raccontando la giornata. Una novità il tempo trascorso insieme, cioè dentro una amicizia tra grandi e bambini, attorno a un tavolo, con i vicini che suonano alla porta, l’estate che trascorre tra camminate, gite in montagna, canti, bagni, giochi, compiti. Nulla, per loro che avevano perso tutto, era scontato, tutto concorreva a dare forma a ciò che avrebbero portato a casa: un nuovo inizio, piccoli passi e solide ragioni a cui ancorarlo. Questo spiega i ritorni, attesissimi, in Italia l’estate successiva, il desiderio di fare il pieno di ciò che teneva in piedi chi aveva aperto loro la porta di casa; questo spiega i contatti mantenuti anche dopo la conclusione del “progetto” estivo e i rapporti nati tra le famiglie italiane e quelle ucraine in patria, rapporti fatti di chiamate ma anche di viaggi per incontrarsi. Fino alla data dell’invasione.

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Che succede allora?
Succede che quel manipolo di famiglie che aveva accolto i bambini del Donbass torna ad essere una meta certa. Qualcuno offre subito la propria casa, qualcuno chiede esplicitamente di essere ospitato. Ricordiamoci che sono i primi giorni di guerra, c’è grande confusione e la straordinaria corsa all’ospitalità in tutta Italia coglie istituzioni e prefetture comprensibilmente impreparate. Sappiamo per esperienza che gli slanci di cuore hanno vita breve senza sostegno, che le difficoltà di ordine burocratico ed economico alla lunga lasciano disarmate anche le persone più desiderose di dare una mano senza sapere bene a cosa andranno incontro. Per questo ci siamo subito seduti al tavolo con Avsi e una rosa di realtà ben radicate nell’accoglienza, come Associazione San Martino, Fondazione Franco Verga, Associazione I Bambini dell’Est, la ong ucraina Emmaus e Medici in Famiglia Impresa Sociale. La prima risposta all’emergenza è stata dare vita all’info point #HelpUkraine per coordinare l’offerta di ospitalità e di aiuto al processo di integrazione. E la reazione è stata commovente.

Quante famiglie hanno dato disponibilità ad accogliere?
Ad oggi sono più di 800, provenienti da tutta Italia. Un numero enorme considerando l’impegno richiesto: ospitare un nucleo familiare composto per lo più da mamme e bambini, per un periodo dai 6 ai 12 mesi. Non è un tetto, un letto, ma nemmeno un soggiorno estivo. Abbiamo cominciato quindi a seguire chi aveva dato disponibilità cercando di introdurre a questo impegno, soprattutto all’esperienza di chi arriva con un vissuto drammatico e ha lasciato tutto, una casa in macerie, un marito o un padre a combattere, lavoro e legami. Questo ha implicazioni evidenti. C’è chi arriva e non vuole alzarsi dal divano o uscire dalla propria camera, chi scappa appena sente il rumore di un aereo o il suono di un ambulanza, ci sono bambini tormentati dagli incubi dopo i giorni di buio e paura nei bunker. Le risorse psicologiche e psichiatriche per chi porta il peso di traumi troppo grandi ci sono, ma ci deve essere anche la consapevolezza di dover accogliere paure, fragilità, ferite, limiti da parte di chi ospita. Sappiamo che ogni accoglienza è un gesto di gratuità incondizionata: se si accoglie per calcolo, tornaconto o banalmente ricerca di “gratificazione” del proprio desiderio di aiutare il prossimo, il rischio è che salti tutto.

Ma come si fa ad accogliere “le ferite” di un altro?
Non si deve stare soli. Da sempre le Famiglie per l’accoglienza condividono momenti di convivenza, per sostenersi nel cammino di affido e adozione: non è diverso per chi sta ospitando i profughi dell’Ucraina. Nella familiarità con gli altri si viene incontro a esigenze pratiche, ma soprattutto si fa memoria di cosa ci sostiene, delle ragioni per cui si è deciso di aprire le porte della propria casa. L’8 maggio faremo una giornata per stare insieme, affrontare questioni concrete, condividere esperienze ma soprattutto recuperare il motivo per cui abbiamo deciso di implicarci con la vita di un altro. Parlo di me, abbiamo accolto una bambina ucraina, ma quando, scorrendo i nomi della lista delle famiglie che avevano dato la propria disponibilità, ho trovato quello di tanti cari amici, mi sono sentito profondamente grato della loro compagnia. Questo non significa diventare una enclave dell’accoglienza. Tutt’altro. Non stare soli significa soprattutto un inizio di comunità.

Tradotto sul territorio cosa significa?
Ora stiamo assistendo a un flusso di ritorno nelle zone liberate, ma molti dei profughi arrivati potrebbero restare qui parecchio tempo. È chiaro che nell’emergenza la collocazione nei Cas o in albergo semplifica la gestione di autorità e istituzioni da molti punti di vista, non da ultimo il lato economico. Ma è altrettanto chiaro che, svanito il miraggio della “guerra lampo”, un tetto e un letto non sono la risposta giusta. In questo senso il bando per l’ospitalità diffusa (cioè l’accoglienza organizzata dai privati, in famiglie e in appartamenti, o dalla rete delle associazioni che prenderanno in carico i profughi, ndr) riconosce che la famiglia è un luogo di accoglienza per natura, ed è capace di arrivare prima e intervenire nell’emergenza per dare risposte che Stato e prefettura non sono in grado di offrire: tetto, letto, sì, ma soprattutto un accompagnamento. A sbrigare pratiche, iscrivere al Ssn, alle scuole, avviare raccolte, spronare all’accoglienza interi quartieri, paesini, cittadine. In altre parole, con la famiglia, attorno all’accoglienza, rinasce la comunità. Non sto parlando di improvvisazione: seguiamo le famiglie una per una per capire chi affidare loro e come. Una responsabilità e attenzione impensabile da parte delle istituzioni impreparate a questi grandi numeri. Ma sicuramente l’accoglienza di questi mesi rappresenterà un precedente importante.

A lei è stata affidata la guida di Famiglie per l’Accoglienza nel 2019, alla vigilia della pandemia. Come avete fatto a fare accoglienza e a “non restare soli” durante due anni di distanziamento, isolamento, invito a non ospitare nessuno?
Non è stata facile rimodulare il modo di accompagnarci. Abbiamo dovuto sospendere gli incontri in presenza, ma nella fatica degli infiniti contatti online, le videochiamate da case colpite da contagi, con le dad in corso, abbiamo capito ancora di più cosa significava accogliere e sentirsi accolti. Che la nostra opera sfidava un mondo in cui l’altro era diventato un nemico, una fonte di contagio, qualcuno da cui allontanarsi e ripararsi. Al contrario, abbiamo potuto sperimentare che  «l’accoglienza e la condivisione sono l’unica modalità di un rapporto umanamente degno perché solo in esse la persona è esattamente persona, vale a dire rapporto con l’Infinito». Sono parole di don Luigi Giussani: è nel solco della sua esperienza che abbiamo imparato che, a differenza di tutte le altre forme di carità, l’ospitalità riguarda la persona intera, non un aspetto o un bisogno particolare di essa. Non un tetto, un letto, uno skype. A “fine pandemia”, o per lo meno, a situazione migliorata, la realtà è venuta fisicamente a bussarci alla porta, per offrirci la possibilità di essere persone, uomini, attraverso l’accoglienza di mamme e bambini ucraini. E questo sta accadendo attraverso persone, amici, che chiedono di entrare nella nostra vita. Non significa che tutti debbano ospitare un profugo in casa, ma interrogarsi su una promessa di bene che l’altro porta per noi: questo ci riguarda tutti.

E perché lei ha deciso di accogliere?
Io e mia moglie siamo sposati da 25 anni; abbiamo sempre aperto la nostra casa a varie forme di ospitalità. Lo abbiamo fatto rispetto a situazioni e circostanze particolari che ci sono capitate, a cui abbiamo reagito avendo negli occhi un’evidenza tanto semplice quanto decisiva e importante: siamo noi i primi ad essere accolti. E questo accade innanzitutto attraverso quegli amici che con discrezione e pazienza hanno sempre accompagnato e accompagnano la nostra vita.

Foto Ansa

Tags: avsifamiglie per l'accoglienzaguerra ucrainaUcraina
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