È stato l’autoritarismo (islamico) di Erdogan a unire il popolo turco
Il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, sembra averla spuntata con l’Europa e con i manifestanti, ma rimane un sorvegliato speciale. Le proteste delle ultime settimane hanno messo in evidenza un nervo scoperto del primo ministro, ossia la sua totale incapacità di confrontarsi con una piazza che, a onor del vero, prima del 31 maggio scorso non era abituato ad affrontare.
La straordinarietà delle proteste delle ultime settimane risiede principalmente in due elementi. Il primo è che si è trattato di una piazza estremamente composita, della quale facevano parte persone con storia politica, esperienze personali e appartenenza ideologica diverse. Il secondo è la spontaneità con la quale la gente è scesa in piazza. Se il premier è stato colto di sorpresa da questa forte ondata di protesta, in parte avrebbe dovuto anche aspettarsela. E anche se, con il solito complottismo tanto caro ai turchi cerca di dare la colpa a influenze straniere, i sintomi del malessere interno c’erano tutti. Da almeno due anni, infatti, il suo esecutivo islamico-moderato veniva accusato di una deriva autoritaria sempre più evidente. L’apice è stato toccato la settimana prima dell’inizio della rivolta, quando una nuova normativa sulla vendita di alcolici è stata approvata dal parlamento a tempo di record. La nuova legge prevede che non possano più essere vendute birra e affini dalle 22 alle 6 del mattino se non nei ristoranti. Tutti i negozi fino a questo momento autorizzati alla vendita che si trovano a 100 metri da scuole e moschee verranno chiusi. Un giro di vite che la popolazione non ha gradito insieme con gli appelli ripetuti del premier a fare almeno tre figli per motivi demografici. Le frasi di Erdogan sono state interpretate come una palese intrusione nella vita personale della popolazione. Non solo dalla parte più laica del paese. Uno degli aspetti forse meno indagati di questa ondata di protesta è il fatto che fra i manifestanti sono presenti anche donne velate o comunque persone che il premier lo hanno votato più volte.
Avevano scelto Erdogan per il suo programma liberale e liberista in economia, ma soprattutto per la mancanza di un’alternativa, visti i programmi vetusti e spesso restrittivi dell’opposizione laica. Ma quando la morsa ha iniziato a stringersi, anche quelli che lo hanno difeso e votato hanno cominciato a non fidarsi più di lui. Per le vie di Istanbul, ma anche di altre città importanti della Turchia, sono scesi per le strade associazioni, sindacati, che proprio in queste settimane stanno ritrovando un loro peso nella vita civile del paese, tifoserie di calcio gemellate per la prima volta nella loro storia, movimenti legati a ideologie socialiste che in Turchia non si vedevano dagli anni Settanta. Solo in ultimo i partiti politici, con vistoso silenzio da parte di quello dei curdi, attualmente impegnati in una delicata trattativa con il premier in cambio della cessazione della lotta armata e che per questo hanno preferito tenere un profilo il più basso possibile sulla faccenda. Una piazza quindi che non può impensierire il primo ministro per quanto riguarda l’attuale maggioranza in parlamento, ma che gli potrebbe comunque dare problemi.
Per il premier è sicuramente il momento più difficile della sua carriera politica, in particolare da quando ha preso il potere nel 2002. Una parte del paese gli si è rivoltata contro, creando un precedente tanto più pericoloso se si pensa che il 2014 e il 2015 presenteranno appuntamenti importanti come le elezioni amministrative, le presidenziali (con Erdogan che vorrebbe diventare capo dello Stato) e le politiche. Ma il premier rischia anche il primato all’interno del suo Akp, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo che ha fondato dodici anni fa e di cui è praticamente sempre stato il padrone pressoché assoluto.
Le tensioni con gli alleati
Recenti sondaggi mostrano la formazione politica al minimo storico, intorno al 35 per cento contro il quasi 51 conseguito alle politiche del 2011. Alcuni quotidiani solitamente filogovernativi hanno riportato rumors secondo i quali il premier sarebbe entrato in pesanti contrasti con alcune fra le personalità più in vista e fedeli del suo partito, primo fra tutti il potentissimo vicepremier Bulent Arinc, che avrebbe addirittura minacciato le dimissioni. A questo vanno aggiunte le tensioni esterne. Il sud-est è stremato per il prolungarsi della crisi siriana, con conseguenti tensioni e rischi per la sicurezza interna del paese e con l’accusa, infamante per il premier, sunnita, di aver assunto una posizione così dura contro l’alawita Assad in primo luogo per motivi ideologici e religiosi. Per gli Stati Uniti la Turchia da alleato strategico si è da tempo trasformata in mina vagante, da gestire volta per volta, con conseguenze gravi per tutta la regione. L’Unione Europea ha deciso di tenere aperta la porta dei negoziati ma non senza avere lanciato un serio avvertimento al premier. L’immagine è quella di un uomo politico che nel giro di poche settimane rischia di avere compromesso quello che aveva costruito in anni di lavoro per accreditarsi presso i propri elettori e i grandi alleati occidentali della Turchia.
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