La lunare situazione in cui si è cacciato Donald Trump
E se tutta la vicenda dell’incriminazione di Donald Trump per essersi appropriato di documenti classificati che non ha voluto restituire altro non fosse che un astuto complotto partorito dalla diabolica mente dell’ex presidente e miliardario? Allo scopo di spianare la strada alla propria rielezione dopo quattro anni lontano dalla stanza dei bottoni, atteggiandosi a vittima di una persecuzione giudiziaria? Una trappola in cui i suoi avversari stanno cadendo con tutti e due i piedi. Il sospetto sorge legittimo quando si guardano da vicino i dettagli della storia.
Di che cosa è accusato Trump
Nel maggio 2021 l’ente governativo Nara, cioè l’Amministrazione nazionale degli archivi e dei documenti, chiede a Donald Trump di restituire documenti classificati che ritiene lui abbia portato con sé dopo aver lasciato la Casa Bianca. Trump tergiversa, discute il da farsi con i suoi legali, trasferisce scatoloni di materiale scottante da locali del suo golf club a locali di una delle sue residenze di Mar-a-Lago, li piazza in un bagno, in una sala da ballo, in un ripostiglio e in un armadietto accanto al mobile bar, tresca con il suo valletto per nascondere qualcosa; nel gennaio 2022 consegna 15 scatoloni, dentro ai quali si scopriranno 184 documenti riservati, 67 dei quali classificati confidenziali, 92 segreti e 92 top secret.
Ma le autorità non sono soddisfatte, e l’11 maggio di quell’anno il Dipartimento di Giustizia intima a Trump di consegnare tutti i documenti portati via dalla Casa Bianca che ancora si trovano presso la sua residenza. Pochi giorni dopo un suo avvocato consegna una cartella con altri 38 documenti contrassegnati come classificati; di essi 17 sono top secret, 16 segreti e 5 confidenziali. Consegna pure una lettera dove il team degli avvocati dichiara che quello è tutto, negli scatoloni che Trump si è portato via da Washington non c’è altro. Ma il procuratore non è soddisfatto, esige che anche gli scatoloni rimanenti vengano consegnati. L’Fbi ottiene un mandato di perquisizione e di sequestro, e l’8 agosto si impadronisce di altri 33 scatoloni di documenti. Il procuratore farà sapere che contenevano altri 100 documenti classificati, alcuni della massima segretezza.
Che cosa hanno detto i legali di Trump
Messi sotto torchio, i legali di Trump parlano, e rivelano che il loro cliente ha chiesto loro se era possibile dire alle autorità che i documenti non li aveva lui e chiuderla lì, ha affermato che non voleva che nessuno passasse al setaccio i suoi scatoloni, ha suggerito a uno di loro di portarsi i documenti in un hotel, sfogliarli e gettare via quelli suscettibili di incriminarlo. Salta fuori che in varie occasioni l’ex presidente ha mostrato a suoi ospiti documenti relativi a questioni di sicurezza nazionale che sapeva essere classificati: piani di attacco per rappresaglie, analisi dei punti deboli del sistema di difesa americano, ecc… Salta fuori che d’intesa col suo valletto Walt Nauta una parte dei documenti è stata trasferita altrove per via aerea.
Una situazione lunare
Il risultato di questi comportamenti apparentemente scriteriati è un atto di accusa con 37 capi di imputazione, 31 dei quali si riferiscono a detenzione intenzionale di informazioni classificate sulla difesa nazionale. Gli altri sono uno per cospirazione al fine di intralciare la giustizia, uno per aver trattenuto documenti, uno per aver nascosto documenti in modo fraudolento, uno per aver nascosto documenti in un’indagine federale, uno per aver associazione criminale volta a nascondere i documenti, uno per dichiarazioni mendaci. I 31 capi di accusa per detenzione intenzionale di documenti secretati sono formulati in base all’Espionage Act, una legge del 1917 pensata per punire le spie. Per ciascuno di essi Trump potrebbe essere condannato a una pena massima di 20 anni di carcere.
La situazione che si è creata è lunare per più ragioni. Trump non ha asportato dossier per danneggiare o ricattare avversari politici, ma documenti relativi alla difesa e alla sicurezza nazionale. In nessun modo è sospettato di avere l’intenzione di condividerli con potenze straniere, mentre è certo che li ha utilizzati per fare colpo su suoi interlocutori in visita a Mar-a-Lago. Se li avesse consegnati tutti quando gli sono stati richiesti, se la sarebbe sicuramente cavata con poco più di una tirata d’orecchi. Non è la prima volta, in tempi recenti, che un altissimo funzionario di governo americano viene indagato e/o incriminato per avere gestito in modo inappropriato documenti riservati.
I precedenti di Clinton, Biden, Pence e Petraeus
Hillary Clinton quando era segretario di Stato, il generale David Petraeus ex capo della Cia, lo stesso attuale presidente Joe Biden per documenti dei tempi in cui era vice presidente nell’amministrazione Obama, l’ex vice presidente Mike Pence ai tempi dell’amministrazione Trump, il consigliere per la sicurezza nazionale Sandy Berger e altri ancora sono incappati in infortuni riguardanti la detenzione illegittima di materiale secretato. Finora la punizione più grave irrogata dalla giustizia sono stati 100 mila dollari di multa e due anni con la condizionale al generale Petraeus, che ha patteggiato la pena dichiarandosi colpevole di reato minore.
Hillary Clinton, che aveva archiviato su un server privato materiale e scambi di email che dovevano essere archiviati sul server del Dipartimento di Stato, è stata indagata e poi prosciolta perché il procuratore James Comey ha valutato che costei non aveva intenzione di violare la legge (sic). Per quanto riguarda le inchieste in corso su Biden e Pence, entrambe sono nate da autodenunce: i legali dei due hanno comunicato alle autorità che in residenze e sedi di organizzazioni riconducibili ai loro clienti erano stati scoperti documenti riservati che non dovevano stare lì, e offrivano la loro collaborazione per la gestione della cosa. Anche Hillary Clinton, Petraeus e Berger hanno collaborato pienamente con gli investigatori per tutto il tempo delle indagini.
Ma lui può ancora candidarsi alla Casa Bianca
Se Trump si fosse comportato sin dall’inizio come gli altri alti funzionari che hanno avuto problemi simili, lo psicodramma di un ex capo di Stato incriminato per violazione della legge sullo spionaggio non si sarebbe mai materializzato. Diversamente dagli altri, Trump ha mostrato e commentato documentazione riservata con estranei, ha ostacolato le indagini, ha nascosto materiale, ha portato fuori strada i suoi stessi avvocati. È impossibile non domandarsi se tutto questo non sia stato messo in scena intenzionalmente, se non ci troviamo davanti a una sceneggiatura scritta da Trump stesso per avvalorare la sua narrazione di vittima del sistema, che vuole impedire al popolo americano di riportarlo al vertice dello Stato.
Anche se in realtà il sistema non può impedirgli di presentarsi alle elezioni presidenziali del 2024 ed eventualmente vincerle. La Costituzione degli Stati Uniti fissa poche condizioni per la eleggibilità di un candidato: deve avere almeno 35 anni di età, deve essere nato negli Usa e deve avervi risieduto continuativamente almeno nei 14 anni precedenti le elezioni. In linea di principio, un galeotto può candidarsi a presidente degli Stati Uniti. E infatti è già successo almeno due volte, e in un caso il parallelo con la vicenda Trump è stupefacente: nel 1920 il socialista Eugene Debs si presentò alle presidenziali mentre si trovava dietro alle sbarre di una prigione federale ad Atlanta; era stato condannato in base all’Espionage Act… L’altro caso riguarda Lyndon LaRouche, che prese parte alle presidenziali del 1992 mentre era detenuto per una condanna per evasione fiscale.
Doppio standard a chi?
A Trump verrà rimproverato il doppio standard di avere attaccato per tutto il corso della campagna presidenziale del 2016 Hillary Clinton per la faccenda delle email riservate archiviate fuori dal Dipartimento di Stato, mentre lui stesso ha esfiltrato vagonate di documenti segreti e ha fatto di tutto per non restituirli, ma lui replicherà che il doppio standard è quello applicato dal Dipartimento di Giustizia: come si fa a dire che solo le sue azioni per le quali è stato incriminato sono state intenzionali, mentre quelle della Clinton no?
Come ha scritto Eli Lake su The Free Press:
«Il 5 luglio 2016 l’allora direttore dell’Fbi James Comey com’è noto annunciò: “Benché ci sia evidenza di potenziali violazioni delle leggi in materia di gestione delle informazioni classificate, la nostra valutazione è che nessun procuratore ragionevole istruirebbe un caso come questo”. Comey proseguì dicendo che l’Fbi non era in grado di dimostrare che la Clinton aveva intenzionalmente malgestito informazioni classificate utilizzando un server privato per le sue email, anche se l’Fbi aveva le prove di sette scambi di email nelle quali la Clinton discuteva questioni altamente riservate. Per accettare la spiegazione di Comey bisogna credere che la Clinton non sapesse che stava gestendo informazioni classificate su di un server privo dei requisiti di sicurezza quand’era segretario di Stato, una cosa che appare non plausibile. È questo che fa sì che l’approvazione da parte del procuratore Garland dell’atto di incriminazione formulato dal Pm Jack Smith (incaricato dell’inchiesta su Trump – ndt) rappresenti un errore molto grave. La Clinton ricevette il più caritatevole dei trattamenti nell’inchiesta sull’eventuale violazione dell’Espionage Act. Ciò ha stabilito un precedente. Esercitare ora la massima severità nei confronti di Trump per un’infrazione simile ha il sapore del doppio standard».
È quello che penserà la maggior parte degli elettori indipendenti americani, che potrebbero fare la differenza e dare la vittoria a Trump in una tenzone elettorale altissimamente polarizzata come sarà quella dell’anno prossimo. Decisamente i Democratici si stanno fregando con le proprie mani.
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