Time, Della Porta Raffo: «Manifestante persona dell’anno? Demagogia»
«Un giorno, quando le notizie degli eventi più importanti erano trasmesse da un ristretto numero di professionisti e stampate su carta o trasmesse nell’aria dai pochi alle masse, i manifestanti sono diventati i principali responsabili della storia». Così inizia l’articolo di Kurt Andersen, che quest’anno firma il “Person of the Year“, rubrica del famoso magazine Time che premia il personaggio più significativo dell’anno. «Faccio un gioco di parole, sono indignato» dichiara a Tempi.it Mauro della Porta Raffo, giornalista ed esperto di politica americana.
Perché è indignato?
«In realtà non mi stupisce. Il Time è sempre stata una testata che si prostra davanti al politically correct e alla demagogia».
Nel suo editoriale, Kurt Andersen presenta ogni rivoluzione come una lotta per la libertà, senza distinzioni.
«Questa è follia. Prendiamo come esempio la Primavera Araba. La rivoluzione porterà al governo una serie di regimi musulmani integralisti in tutta l’Africa settentrionale. Citando i dittatori dell’America latina, Franklin Delano Roosevelt usava il termine “nostri”. Gheddafi era lo stesso per noi: ci garantiva lo status quo in Libia. E adesso? Non credo che si sarà più liberi di prima».
Ieri è avvenuto il ritiro delle truppe americane dall’Iraq: 40 mila soldati. L’arcivescovo di Kirkuk, mons. Louis Sako, ha dichiarato che il ritiro è negativo, gli americani lasciano un vuoto di potere che il governo locale non può colmare.
«Sono d’accordo. Noi occupiamo un paese e lo governiamo, facciamo in modo che si attrezzino per durare nel tempo, poi ce ne andiamo. Ma in Iraq non andrà così. Si sono messi insieme delle etnie troppo disparate e religioni contrapposte al governo. Temo che esploderà una guerra civile».
Gli americani però se ne vanno dall’Iraq senza avere ristabilito la pace.
«Vero e questo non è giusto. Ma il vero problema è che gli americani si sentono obbligati a esportare ovunque la democrazia, concezione che deriva da una visione nazionale idealistica improntata sulle teorie di John O’Sullivan e di Kipling. Ma è chiaro che se la democrazia non è radicata culturalmente nel paese in cui si vuole impiantare, non può avere futuro».
Dove verranno dirottati i 40 mila reduci di guerra?
«Bella domanda. Gli americani non sono attrezzati per sostenere in patria così tanti uomini. I soldati che tornano, spesso, sono psicologicamente minati dall’esperienza della guerra. Cadono in depressione, si danno all’alcolismo. Parliamoci chiaro: molti militari americani non sono di un elevato livello sociale. Combattono per soldi, non sono veramente motivati».
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