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L’odissea di Abraha e delle sue piccole nate durante il massacro in Tigrai

«Abbi cura dei miei bambini», gli chiese Letay prima di morire. E l’uomo riuscì a salvarli dalla strage delle milizie amhara e varcare il confine etiope. Il drammatico reportage dell’Ap su una famiglia in fuga in Sudan

Caterina Giojelli
24/04/2021 - 3:00
Esteri
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Il bilancio dei massacri in Tigrai è drammatico, si contano oltre 50 mila morti, 75 mila profughi fuggiti in Sudan, circa 2 milioni di sfollati interni

«Abbi cura dei miei bambini». È un pezzo bello e straziante quello pubblicato dall’Ap sulla storia di Abraha Kinfe Gebremariam. La storia di un padre di 40 anni del Tigrai e di due bambine venute alla luce durante il massacro di Mai Kadra, la sanguinosa operazione di pulizia etnica che il 9 e il 10 novembre scorso ha portato – dati dell’Ethiopian Human Rights Council (Ehrco) – allo sterminio di oltre mille civili della cittadina dell’Etiopia nord-occidentale, al confine col Sudan.

Gli omicidi erano iniziati la mattina del 9 novembre: Abraha e Letay, col suo pancione di fine gravidanza si erano nascosti nell’erba alta insieme ai loro figli Micheale di 5 anni e Daniel di 11, ore sotto il sole in silenzio e in attesa che calasse la notte per poter rientrare a casa.

«Abbi cura dei miei bambini»

Il giorno dopo Letay era entrata in travaglio. Il loro quartiere era deserto, ovunque risuonavano spari e tutti erano scappati. Era rimasto solo un anziano vicino di etnia amhara avversa ai tigrini, l’unica persona che poteva aiutarli. Letay partorì in tre ore a sorpresa due gemelline, Abraha pregava che i colpi d’arma da fuoco coprissero le urla della moglie e delle gemelline.

Avevano fame, Letay non era riuscita a espellere la placenta, agonizzava e non riusciva ad allattarle. Troppo pericoloso raggiungere un ospedale: di quei giorni – sette prima che la situazione precipitasse e il vicino li accompagnasse in clinica – Abraha ricorda solo che pregò, pregò e pregò. Quando Letay arrivò in clinica il personale disse che non poteva (o non voleva) aiutarla. Il nono giorno la donna chiamò a sé il marito: «Abbi cura dei miei bambini. Sto per morire. Non c’è più speranza. Mi dispiace molto».

Il funerale di Letay, «papà sii forte»

La chiesa della cittadina a nord del Tigrai era vuota il giorno del funerale di Letay, mezza dozzina di persone in tutto nel cimitero in cui erano stati appena tumulati centinaia di morti del massacro. Abraha tornò a casa, dove lo stavano aspettando i bambini di cui si era quasi dimenticato. Le piccole strillavano dalla fame, «papà abbiamo bisogno di te, sii forte», lo pregarono i maggiori che si erano presi cura di loro quando l’uomo scoppiò in lacrime.

L’anziano vicino amhara procurò loro del cibo, evitando ai bambini di tornare al mercato che traboccava di cadaveri. Un altro vicino di etnia wolkait procurò alla famiglia documenti falsi e quando le milizie amhara bussarono alla sua porta Abraha finse di essere uno di loro, parlò in amarico, la lingua dell’Etiopia, non disse una parola in tigrino. «Pensavano fossi uno di loro» racconterà l’uomo all’Ap spiegando che i soldati offrirono loro cibo e conforto. Ma a caro prezzo, le milizie iniziarono a cercare di reclutare i suoi famigliari. E le uccisioni a Mai Kadra continuavano.

«Sono amhara, possono passare»

Fu allora che i pochi vicini rimasti decisero di aiutare il padre a scappare. Una donna gli consegnò una fascia rosa per avvolgersi le gemelle addosso, ai figlioletti venne dato una pagnotta locale, una lattina di latte, due litri di acqua. Il vicino amhara li accompagnò al posto di blocco, «questa famiglia è amhara, possono passare» garantì ai soldati, che senza sospettare nulla fermarono un’auto e offrirono loro un passaggio fino a Humera, a un passo dal confine sudanese.

Durante il viaggio l’uomo osservò decine di famiglie disperate in fuga nella sterpaglia, inseguite dai soldati, in mano poche e povere cose. A Humera, Abraha recuperò un po’ di latte in ospedale: le bambine, belle come Letay, conquistarono uno dei pochi tigrini rimasti al lavoro in una città sotto il crescente controllo amhara che li ospitò a casa sua convincendoli a tentare di scappare in Sudan, quattro ore e mezza di cammino. Col «terrore di essere uccisi», come era capitato a molti che ci avevano provato ed erano finiti ammazzati dai giovani amhara e dai soldati della vicina Eritrea, Abraha prese la via dei campi all’alba.

Oltre il fiume, verso il Sudan

Nascondendosi nell’erba per placare il pianto delle piccole o celarsi delle milizie arrivò alla riva del fiume Tekeze col sole già alto. Riuscì a salire su una chiatta galleggiante su taniche vuote. Non sapeva nuotare ma sapeva che doveva mantenere fede alla promessa fatta a Letay. Quando arrivò in Sudan, con le gemelle gravemente denutrite, riuscì solo a mostrare una foto a una infermiera di Medici senza frontiere, «questa è mia moglie».

Mesi dopo Abraha tornò da solo al confine con l’Etiopia per fare una telefonata, nell’unico punto in cui i rifugiati trovano campo coi loro telefonini e possono dare notizie ai famigliari. Sua sorella non sapeva nemmeno che Letay avesse partorito, «maschi o femmine? A chi somigliano? Come è andato il parto?», gli chiesero i parenti rimasti in Tigrai e che non avevano saputo nulla del massacro di Mai Kadra. Tutto bene, rispose Abraha, «ma non sono riuscito a salvarle la vita».

La sera tornò a “casa”, nel centro di accoglienza dei rifugiati di Hamdayet, prese in braccio le piccole e solo allora realizzò che non erano mai state battezzate. Ci pensò il piccolo Micheale, custode dei pochi monili della mamma che Abraha riuscì a portare con sé durante la fuga: ora le piccole hanno un nome, Aden (paradiso) e Turfu (rimasta indietro), che dicono somigli a Letay. Bellissima come la mamma e la promessa, durante il massacro in Tigrai, «abbi cura dei miei bambini».

Foto Ansa

Il grande reportage fotografico sulla storia di Abraha e della sua famiglia si trova sul sito AP Images

Tags: etiopiarifugiatisudantigrai
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