Mio caro Malacoda, volevo sottoporre alla tua attenzione alcuni dati che ti prego di considerare non in chiave politica ma sotto l’aspetto strettamente etico. Dovresti avere imparato ormai che il primato dell’etica pubblica è ciò che ci consente di fare e disfare in questo mondo senza doverci curare troppo delle ragioni e della verità delle cose. L’affermazione della coerenza comportamentale come principio primo ci permette di attraversare indenni tutte le incoerenze logiche e fattuali di cui una persona intelligente potrebbe accusarci.
Ma veniamo ai numeri di cui ti parlavo. Li desumo da una fonte insospettabile, il gazzettino quotidiano del moralismo pubblico alternato: un giornale italiano che si chiama la Repubblica. Premessa: si parla di tasse. Il dovuto a Cesare su cui sempre ci si sofferma quando si cita il Nostro Nemico, tralasciando di interrogarsi che cosa intendesse nella seconda parte del suo celebre aforisma quando parlava di un non ben quantificabile “quel che è di Dio”. Da lì in poi non c’è retore di bon ton fiscale che non ci ricordi quotidianamente che “le tasse vanno pagate”, e che la “lotta all’evasione fiscale” è il compito primario di qualsiasi governo che voglia fare dell’Italia un paese normale, anche perché – si aggiunge – con i proventi di questa lotta (si stimano 150 miliardi di euro annui di evasione) si risolverebbe ogni problema economico italiano.
C’è chi anche a sinistra (la lotta all’evasione è un po’ come la difesa della Costituzione, dovrebbe essere un impegno di tutti ma a sinistra la sentono come una loro bandiera personale, dettandone i modi e i contenuti) fa notare che eliminare d’un colpo tutta quella ricchezza sommersa avrebbe come prima conseguenza concreta il toglierla dall’economia reale con la chiusura di migliaia di piccole imprese e conseguenze disastrose per l’occupazione e anche per le casse dello Stato (lo dice il professor Ricolfi), ma in pochi gli fanno eco. Dicevo, i numeri. La pressione fiscale reale totale di un bottegaio di Firenze è del 72,77 per cento del reddito d’impresa. Per dare a Cesare quello che Cesare reclama, gli occorrono 261 giorni del suo anno lavorativo, quasi nove mesi su dodici. Più sfortunato di lui il negoziante (in regola) di Napoli, che salda il suo debito con lo Stato in 272 giorni, lasciando nelle sue casse il 74,61 per cento del suo fatturato. Ma c’è chi sta peggio, il sarto che disegna moda e cuce vestiti nella moderna ed efficiente Bologna taglia e cuce per il fisco 282 giorni l’anno, nelle tasche dei suoi pantaloni resta meno del 23 per cento del suo lavoro, il 77,23 viene prelevato dalla mano pubblica.
Perché ti scrivo tutto questo? Non certo per sposare la tesi che dice che la lotta all’evasione fiscale passa attraverso la diminuzione della pressione fiscale. Ti ho già detto che la politica non è nei miei interessi. Mi interessa invece la corruzione dei cuori e il come si possa favorirla. Uno dei metodi più sicuri è prendere una parola, una sola, del Nostro Nemico ed esaltarla nella sua imperatività morale: date a Cesare quel che è di Cesare. A Cesare, nello stesso tempo, non dobbiamo far sapere quello che il Nostro Nemico ha suggerito di chiedere ogni giorno a suo Padre: «Non ci indurre in tentazione». Cesare potrebbe diventare saggio e gli uomini improvvisamente virtuosi. Non va bene.
Tuo affezionatissimo zio Berlicche