Come si fa a celebrare la giornata contro il suicidio mentre lo si rivendica come un “diritto”?

Di Carlo Bellieni
11 Settembre 2013
L'11 settembre il mondo si mobilita per la prevenzione del suicidio, ma intanto lo esalta come un «atto libero». E la disperazione diventa una malattia sociale

Articolo tratto dall’Osservatore Romano – «Non si nasce perché vocati alla morte, ma perché vocati alla vita» scriveva Hannah Arendt che sembra però smentita da un dato sconcertante: il dilagare del suicidio, uno ogni 15 minuti negli Stati Uniti, più morti di omicidi e guerre attualmente in atto sommati insieme, secondo la Associazione mondiale per la prevenzione del suicidio (Iasp). L’11 settembre si celebra in tutto il mondo la Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio, una giornata contro la solitudine, contro un mondo che non è in grado di accompagnare chi è solo o di curare chi è depresso.

L’Organizzazione mondiale per la sanità (Oms) ha preso sul serio questa emergenza fino a promulgare nel 2008 delle linee-guida per i giornalisti per la prevenzione del suicidio, ove si legge: «Evitare un linguaggio che sensazionalizza o fa sembrare normale il suicidio o lo presenta come la soluzione ai problemi». E raccomanda di evitare eccessive descrizioni delle scene dei suicidi e in particolare di quelli di persone famose. Non sembra che queste raccomandazioni siano poi tanto seguite, e questo è un guaio, perché il suicidio è «contagioso» — come ben spiega l’ultimo numero della rivista dell’Associazione medica canadese — e per l’Oms è un male da combattere.

Ma è possibile che esista un male contro cui ci si arma per tutelare il singolo e la società, e al tempo stesso ci si adatti a dire che in fondo «è un atto nobile», «è un gesto libero»? Quando qualcuno reclama il suicidio come un diritto, la lotta a questo male subisce una terribile frenata. E allora si assiste al paradosso di chi nega che il suicidio sia un male sociale e una vittoria della solitudine per promuovere la legalizzazione del suicidio assistito, come se il primo interesse dei malati fosse morire e non essere curati meglio anche nel fine vita. E i paladini della legalizzazione del suicidio assistito arrivano a spiegare che esiste un suicidio “di serie A”, che sono pronti ad autorizzare, e uno di “serie B” che invece sarebbe da prevenire. L’unica differenza tra i due è che nel primo caso le decisioni del suicida sono passate al vaglio di una commissione di esperti, mentre nel secondo si tratta di un atto isolato. Distinzione surrettizia, perché contraddice paradossalmente l’assunto dell’autodeterminazione che loro stessi mettono alla base della scelta suicida: perché il malato di tumore dovrebbe essere autorizzato a suicidarsi e l’imprenditore che ha perso tutto no? La logica che avanzano porta o a fare dei distinguo arbitrari o a permettere a tutti il suicidio, con l’unica clausola di averne sottoscritto l’atto di decisione.

Ma anche chi reclama il suicidio come diritto all’autodeterminazione, non riesce fino in fondo a sostenere che una reazione di fuga sia davvero un gesto libero: oggi il suicidio è una patologia sociale in una società basata sul catastrofismo, che vede come unica via di uscita la censura e la fuga, mai l’affrontare il problema. Si è infatti diffuso a livello sociale quel ragionamento irrazionale («se questo accade, la vita non ha più senso», oppure «se questo accade, tutti mi odiano») che Albert Ellis, psicologo statunitense (1913-2007) poneva alla base di tante patologie mentali. Ma quella che era patologia del singolo ora è patologia sociale: viviamo in una società malata, la malattia è la disperazione e quando tutto appare nero le scelte non sono più libere. D’altronde nella storia la teorizzazione del suicidio è quasi sempre legata a una visione nera della vita; questa può essere talora ammantata di nobiltà (basti pensare alla filosofia cinica) o addirittura di purezza religiosa (vedi il suicidio rituale degli eretici catari, che veniva predicato per sottrarsi alle incombenze della creazione considerata in toto negativa e malvagia), ma resta una visione buia. E non stupisce che in un momento di perdita di valori e di solitudine eretta a ideale, il suicidio torni a essere teorizzato. Dagli studi di Sigmund Freud fino alle recenti ricerche sulla depressione — vedi l’ultimo numero della rivista Depression and Anxiety — emerge il peso della malattia mentale o della solitudine sulle scelte suicide. Ed emerge anche come l’obbligo della società sia di prevenire, come richiede l’Oms, e non di aprire le porte, abbassare le braccia, e autorizzare il suicidio.

Si resta delusi quando sullo stesso giornale si legge in una pagina l’eroismo di chi salva un suicida che sta annegando e nell’altra la teorizzazione del suicidio come diritto. Si potrebbe giungere all’estremo paradosso di ritenere che il salvatore abbia preso una cantonata rischiando la vita per sottrarre il suicida alla morte.

La lotta al suicidio come viene richiesta dall’Oms trova un ostacolo quando questo gesto viene addirittura teorizzato come diritto da far entrare nella legislazione. Una richiesta che, anche se ammantata di alti ideali, è dettata solo dalla profonda contraddizione di una società malata, che non sa essere compagnia alle solitudini delle periferie esistenziali.

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8 commenti

  1. Giovanni

    Siamo alle solite…

    Il suicidio come atto in sè non ha bisogno di autorizzazioni e regolamentazioni, Quello che eventualmente deve essere normata è l’assistenza al suicidio.

    Non ha senso quindi parlare di “diritto al suicidio” garantito dalla legge, perchè questo diritto è immediatamente usufruibile da quasi tutti, se uno ha deciso di buttarsi dalla finestra non credo che si possa incatenarlo al muro per evitare che lo faccia.

    Diverso è il discorso di chi, perchè non se la sente di fare da sè o ha subito danni fisici o mentali tali da non poter scavalcare da solo il balcone deve rivolgersi a terzi.

    Che questi terzi siano eventualmente disposti ad aiutare il malato di SLA terminale che conduce una esistenza orribile e non l’imprenditore fallito che deve solo rivolgersi ad un buon commercialista non mi pare per nulla assurdo.E non mi pare assurda neppure una legge che disponga in questo senso.

    1. carlo bellieni

      Bè, ma non considera tutte le pagine di giornali dedicate a decantare i suicidi di personaggi famosi, come atti nobili e di alto livello? La richiesta al diritto a “morire quando lo dico io” non l’ho inventata io, ma passa nei giornali: che effetto pensa che faccia alle orecchie del depresso o del licenziato? cb

      1. Giovanni

        Infatti sono assolutamente d’accordo con le linee guida OMS. Le procedure di assistenza al suicidio sono ben altra cosa.

      2. Remo

        Mi può fare un esempio di una pagina di giornale che decanta il suicidio di un personaggio famoso?

    2. Piero

      Si, ci vorrebbe una legge che obbligasse chi è d’accordo ad aiutare il suicida a sparargli in faccia
      guardandolo negli occhi, si ci vorrebbe proprio……..
      Comodo fare gli asettici davanti ad una tastiera….

    3. angelo

      Giovanni, ma chi ti da il diritto di dire che una “eistenza orribile” è peggiore della morte?
      E poi come definisci “esistenza orribile”?
      Qualcuno potrebbe dire che anche avere il raffreddore è una esistenza orribile.
      O anche l’ esistenza “tout court”, visto che siamo tutti condannati a morte.
      E poi parlare di un “diritto” alla morte è un assurdo.
      Infatti un diritto presuppone qualcuno che esercita il diritto. Qualcono che possa dire “ok, mi hanno ammazzato finalmente; adesso si che sto godendo il mio diritto”.
      Invece quando sei morto sei morto e non hai più diritti da godere..
      Rimane la tua anima, è vero. Ma non il tuo insieme corpo-anima, che è l’ entità che “soffriva oirribilmente” e potrebbe godere del diritto alla morte.
      E’ come se uno che ha problemi di lavoro, desse fuoco alla ditta dove lavora. Forse non ha più problemi, ma non ha più nemmeno il lavoro.

      1. Giovanni

        Solo tu puoi dire se la tua esistenza è orribile. Talmente orribile da non poterla vivere.
        Gli altri però hanno il diritto di non voler avere niente a che fare con la tua scelta se non la condividono. Quindi se vuoi buttarti sotto il treno perchè ti è morto il gatto fai da solo, se sei un malato terminale che ha davanti solo sofferenza e nessuna speranza (oggettiva) puoi richiedere una procedura che abbrevi le tue pene.

    4. Emanuele

      Bè, a lei forse non pare assurdo.
      Anche io non lo giudicherei assurdo.
      Questo problema ha due aspetti. Uno più generico, e uno più specificamente morale.

      Quello generico è quello che mi spinge a dire no, forte e chiaro, all’eutanasia. Il fatto che se si ammette questo INEVITABILMENTE si passa a eliminare i più deboli, gli interdetti, quelli che non possono decidere per conto loro.
      Lo scopo è trarne gli organi.
      Non ci crede? In Belgio è così. C’è una diffusa pratica eutanasica. Il Belgio è diventato il mercato principale di organi umani. Indovini un po’ da dove vengono?

      Il motivo più specifico è quello che riguarda il diritto a farsi ammazzare. Questo diritto non può essere richiesto verso nessuno, perché nessuno può essere autorizzato, per nessun motivo, a far fuori un’altra persona. Altrimenti la vita diventa un bene disponibile.

      Lei mi dirà: ma uno che soffre, eccetera?
      Dovrebbe in quel caso trovare un medico che è d’accordo, e non obbligarlo. Si creerebbe una legge che inizialmente rispetta l’obiezione di coscienza. Poi però si comincerebbe, come è ora per l’aborto, a contestarla.

      Quindi come vede l’eutanasia che vuole lei è una eutanasia che esiste solo sulla carta. Nella pratica è una macelleria di stato, foriera di infiniti problemi per la società.

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