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Strage migranti, disastro Libia. Perché non dobbiamo aspettarci «una soluzione a breve»

Per gli Usa non è una priorità, il blocco navale «è un atto di guerra». Che fare? Idee alternative

Leone Grotti
21/04/2015 - 17:15
Esteri
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APTOPIX Malta Europe Migrants

Dopo che 850 migranti sono affogati nel Mar Mediterraneo, quando la bagnarola che li trasportava si è rovesciata a 70 miglia nautiche dalle coste libiche, nessuno è potuto restare indifferente. Ma le buone intenzioni mostrate da tutti i politici e organismi internazionali – governo italiano, Unione Europea, Nazioni Unite in primis – per evitare che una simile tragedia si ripeta, non potranno risolvere rapidamente il problema dei barconi e della tratta dei disperati.

«BLOCCO NAVALE È GUERRA». All’indomani della strage tutti hanno puntato il dito contro il luogo da cui partono i barconi: i porti libici. La Libia è uno Stato in dissoluzione, il caos regna sovrano, due governi si contendono il potere, l’Isis si infiltra dovunque e i trafficanti di esseri umani ci sguazzano. Le parole del Capo di Stato maggiore della Difesa italiana, però, hanno l’effetto di una doccia gelata per tutti coloro che hanno sostenuto la necessità di un blocco navale: «Una soluzione di questo tipo potrebbe paradossalmente alimentare il traffico degli schiavisti al momento e non risolverebbe il problema del soccorso in mare, che è sempre obbligatorio» per ogni marinaio, ha dichiarato alla Stampa Claudio Graziano. «Non vi sono le condizioni per attuare il blocco navale, in quanto in assenza di una risoluzione delle Nazioni Unite o di un accordo bilaterale, un’azione del genere rappresenterebbe un vero e proprio atto di guerra».

IL RUOLO DEGLI USA. La risoluzione delle Nazioni Unite non arriverà mai. Uno dei motivi principali lo spiega al Corriere della Sera Ian Bremmer, influente politologo e fondatore del centro americano Eurasia: «L’interesse più grande per Renzi è la Libia ma quest’ultima tragedia degli immigrati, per quanto orribile, nel contesto di quello che sta accadendo in Medio Oriente è piuttosto piccola. (…) Nel caso della Libia, dove si tratta di costruire uno Stato dal nulla, (…) la sfida è enorme».
Per Barack Obama, continua Bremmer, le priorità sono Isis, Iran e dialogo israelo-palestinese. «Altre cose come la Libia sono a un livello priorità intorno al numero sei. (…) Anche per i sauditi, come per quasi tutte le parti coinvolte, la Libia non è la priorità numero uno, ma la numero cinque, dopo lo Yemen, l’Iran eccetera. Insomma, non dovremmo aspettarci una soluzione a breve». Nessuno poi vuole correre in aiuto dell’Europa, quando gli Stati che la compongono hanno volutamente giocato un ruolo «marginale in quasi tutte le crisi del Medio Oriente».

NON SOLO LIBIA. Se anche venisse risolto il problema libico, ipotesi utopica al momento, non si risolverebbe quello dei barconi: «Bisogna guardare l’insieme», ha dichiarato a tempi.it Andrea Di Nicola, criminologo dell’università di Trento e conoscitore della tratta. «Se si chiude un tratto di costa libica, i trafficanti si sposteranno di qualche chilometro o cambieranno tratta o riorganizzeranno le rotte».

STATUS DI RIFUGIATI. Bisognerebbe togliere la materia prima ai trafficanti, cioè i migranti disposti anche a imbarcarsi per un viaggio disperato pur di scappare dai paesi di origine. Queste persone, secondo il direttore di Amnesty International Italia, Gianni Ruffini, nel 70 per cento dei casi avrebbero diritto allo status di rifugiati. Provengono infatti da paesi martoriati da guerre o dittatori, riporta ancora la Stampa, come Eritrea, Somalia, Sud Sudan, Gambia, Siria, Mali. Purtroppo, l’unico modo per raggiungere un paese dove esercitare questo diritto è affrontare un viaggio infernale.

NON BASTA MARE NOSTRUM. È per questo che bisogna ascoltare un esperto come don Mussie Zerai, sacerdote eritreo che ogni giorno riceve telefonate di aiuto dai migranti che si imbarcano su carrette fatiscenti. La responsabilità di tante morti, sostiene il candidato al premio Nobel per la pace 2015, è innanzitutto dei paesi da cui scappano i migranti e anche dell’Occidente, nella misura in cui versa soldi a tanti dittatori senza ottenere niente in cambio. Se da una parte nel Mar Mediterraneo una soluzione «emergenziale» come Mare Nostrum sarebbe importante perché salva molte vite, e bisognerebbe «ripristinarla a livello europeo», scrive in una nota il sacerdote sul suo sito Habeshia, «è ovvio che non è la risposta definitiva né la migliore al problema dei disperati che salgono sui barconi».

CORRIDOIO UMANITARIO. Come spiegava a tempi.it “l’angelo dei profughi”, «una soluzione intermedia consiste nell’aprire un corridoio umanitario per le persone che richiedono asilo. Chi arriva da noi in Italia, infatti, cerca di ottenere lo status di rifugiato. Perché allora non risparmiamo loro le avversità e il rischio di morire organizzando convogli umanitari con la responsabilità della comunità europea per smistare i richiedenti asilo in tutta Europa? Questo corridoio potrebbe partire in Sudan o in Etiopia o anche in Libia attraverso le ambasciate, dove esaminare le richieste di asilo. Così si impedirebbe che tutto il peso dei rifugiati ricada sull’Italia e gli altri paesi del Mediterraneo e si permetterebbe a queste persone di non rischiare la vita. Spenderemmo meno soldi e avremmo più sicurezza: per noi e per i profughi».

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