Stato-mafia, il diavolo sconvolge i processi con i pentimenti tardivi (vedi il maresciallo Masi)

Di Berlicche
13 Maggio 2013
Un maresciallo denuncia oggi di essere stato a un passo dall’arresto di Provenzano e Messina Denaro e di essere stato fermato. Dodici anni fa

Mio caro Malacoda, devi scrivere un libro sulla giustizia italiana e lo devi intitolare “Alla ricerca della memoria perduta”. So di seminare zizzania, ma l’invocazione di tempi rapidi per i processi, l’indignazione per la mancanza di trasparenza nelle indagini, il disgusto per le nebbie e le paludi nelle quali si perde ogni incisività della lotta alla mafia, la denuncia di depistaggi… tutto questo necessiterebbe di tempistiche più solerti e meno sospette.

Avevamo ormai assuefatto gli italiani ai prodigiosi recuperi di memoria di alcuni pentiti a dieci-vent’anni dai fatti che, dopo un adeguato periodo di galera, decidevano di denunciare. Qualche assoluzione di troppo dei politici chiamati in causa e qualche eccessiva disinvoltura (per esempio: armi nel cortile di casa, conti correnti esteri, smodato presenzialismo televisivo nel caso di Ciancimino jr) ne hanno appannato l’appeal. Meglio affidarsi a testimoni più attendibili, per curriculum e per immagine. Chi meglio di un poliziotto? Anzi, di un carabiniere?

Così, nel maggio 2013, il maresciallo Saverio Masi denuncia alla procura di Palermo, che frequenta quotidianamente in qualità di capo-scorta di Nino Di Matteo (il pm a cui Antonio Ingroia ha lasciato in mano la patata bollente del processo sulla presunta trattativa tra Stato e mafia) denuncia, ti dicevo, di essere stato a un passo dall’arresto di Provenzano ma di essere stato bloccato dai suoi superiori, e anche di aver visto il superlatitante Messina Denaro e di essere stato nuovamente fermato nelle sue indagini. La sua testimonianza arriva a Palazzo di Giustizia, come fa notare il cronista che ne dà notizia, «pochi giorni prima del 27 maggio 2013, quando si aprirà il processo sulla trattativa».

Bene. Si usa dire che il tempo è galantuomo, ma è altrettanto vero che il tempo è corruttore, modifica, cambia, costruisce miti o li riduce in macerie. Giustamente agli estensori dei Vangeli abbiamo sempre rinfacciato di averli scritti in anni troppo distanti dagli accadimenti che raccontano, gli storici che ne attestano la validità testimoniale, infatti, li datano più vicini ai fatti. Nella giustizia italiana sembra valga, singolarmente, il principio opposto. Certo, la memoria è un mistero checché ne dicano i neuroscienziati, ma come mai un servitore della giustizia denuncia nel 2013 fatti accaduti tra il 2001 e il 2007? Nel primo caso sono passati dodici anni, nel secondo sei. Il maresciallo in questione non è uscito schifato dall’Arma, ma diuturnamente in questo lungo periodo ha continuato a prestarvi servizio, facendo le sue relazioni che, dice, venivano puntualmente respinte. È cambiato il clima? I giornali e le tv si sono fatti più coraggiosi? Non pare, la trasmissione in cui il maresciallo denuncia il tutto (Report) nasce nel 1994, Michele Santoro è in video dal 1987.

Tempo e strumenti per denunciare non sono mancati. Ecco, forse è mancata l’occasione. Ora un processo imbastito e traballante offre al maresciallo la possibilità di pentirsi non di cose che non ha fatto ma certo di un’omissione che gli tormenta la coscienza. Non mente, né è sollecitato a farlo, ma lascia pur sempre il sospetto che sia l’occasione a far l’uomo pentito. Ricordati sempre di fornirne una a chiunque.

Tuo affezionatissimo zio Berlicche

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