Sos Educazione: senza libertà di scelta non c’è buona scuola. La maturità passa dalle paritarie

Di Laura Borselli
29 Novembre 2014
Ce lo insegnano i sistemi più avanzati. Ma per cambiare in meglio occorrono pochi pregiudizi e il coraggio di sperimentare


C
he cosa hanno in comune l’Italia e gli Stati Uniti? «Il fatto che le scuole pubbliche sono costose, portate avanti più per il beneficio degli insegnanti che degli alunni, e che hanno risultati relativamente modesti rispetto allo standard internazionale». Non è difficile immaginare che il corposo programma della Buona Scuola non soddisferebbe Charles Glenn, professore di Educational Leadership alla Boston University, tra i massimi esperti mondiali di sistemi educativi e autore di questo giudizio a dir poco lapidario contenuto in Sos Educazione. Statale, paritaria: per una scuola migliore, volume commissionato dalla Cdo-Opere educative-Foe, edito dalla Fondazione per la Sussidiarietà.

Uscito nei giorni in cui si concludeva la grande consultazione pubblica sulla Buona Scuola, il libro può costituirne una appendice interessante e necessaria. Anche perché di paritarie, nell’ambizioso documento voluto dal governo Renzi, non si parla. Eppure le esperienze di molti paesi, europei e non solo, dicono che una buona scuola è una scuola in cui le paritarie sono realmente considerate come facenti parte del sistema di istruzione. Ossia sono riconosciute e sostenute, come diretta conseguenza di quello che in Italia è scritto nella legge 62/2000 che stabilisce che il sistema scolastico è costituito dagli istituti gestiti dallo Stato e da quelli gestiti da privati “accreditati”, cioè paritari, e perciò rivolti a tutti. Chi si occupa di scuola, statale o non statale, questo discorso lo conosce a memoria. E se oltre che una battaglia per la rivendicazione di un diritto, quella per le scuole paritarie fosse una partita in cui anche lo Stato, e la scuola statale in particolare, avesse tutto da guadagnare? È in fondo per cominciare a rispondere a questa cruciale domanda che Giorgio Vittadini e Luisa Ribolzi, curatori del volume, hanno messo insieme un corpus di interventi che ha l’ambizione di fotografare in maniera più completa possibile il mondo delle scuole paritarie.

copertina SOS educazione_bassaE una fotografia non può che fare i conti coi numeri. Tra il 2006 e il 2013 il numero delle scuole paritarie è stato in costante crescita e ha conosciuto un brusco stop nel 2013-2014. Parallelo il percorso del numero degli studenti, che fino al 2009-2010 è cresciuto fino a raggiungere il 12 per cento della popolazione scolastica totale per poi assestarsi intorno a una media dell’11,5 per cento. Oggi, dunque, la scuola paritaria è frequentata da un ragazzo su otto. Un altro elemento interessante in termini numerici è il dato sulle persone disabili e sugli stranieri, che risulta costante e particolarmente significativo nella scuola primaria e nella secondaria di II grado. Questo, notano Marco Lepore e Paola Guerin nel relativo capitolo del libro, «nonostante non siano previsti contributi statali per l’integrazione degli studenti stranieri e i finanziamenti ministeriali per la disabilità, come pure quelli degli Enti locali, siano insufficienti e in costante diminuzione».

Addirittura in uno degli ultimi decreti sulla scuola (il 104 del settembre 2013) si limita alle scuole statali l’intervento per il sostegno necessario ai portatori di handicap, tradendo un’idea del tutto accessoria della scuola paritaria. Ciononostante, «pur essendo ancora molto sbilanciata verso la scuola statale, la scelta delle famiglie con figli disabili si sta lentamente orientando anche verso la scuola paritaria. Tra le motivazioni prevalenti: la ridotta dimensione delle scuole, che garantisce un clima più familiare e, soprattutto per le scuole di ispirazione cattolica, la maggiore attenzione alla persona». Nessuna novità nel capitolo dei finanziamenti, rimasti pressoché stabili (e molto esigui) in dieci anni. Oggi, in mezzo a continue incertezze sui tempi e l’effettiva erogazione, queste scuole ricevono poco più dell’1 per cento della spesa Miur per l’istruzione, a fronte di una percentuale di allievi dell’11,5 per cento della popolazione scolastica totale.

Il mito dell’uguale per tutti
La provocazione di iniziare a concepire la scuola paritaria come risorsa anziché come costo è raccolta da Roberto Pasolini, gestore dell’Istituto Europeo Leopardi di Milano e dirigente di Aninsei, convinto che sempre più in futuro «la qualità del servizio formativo passa dalla collaborazione tra statale e non statale e non da una discriminata estensione dell’intervento statale diretto». È bene sottolineare che questa è una ipotesi di lavoro che pressoché tutti gli autori dei contributi raccolti nel volume della Fondazione per la sussidiarietà ritengono importante verificare con una sperimentazione sul campo, facendo piazza pulita di falsi miti partigiani che trovano terreno fertile da un lato o dall’altro. Quelli per cui da un lato c’è chi vede in ciò che non è gestito dallo Stato solo diplomifici e chi dall’altra demonizza la scuola statale, terrorizzato che la densità di alunni stranieri o il disagio (in una parola: la realtà) corrompano i propri figli. Vero è che i problemi del sistema scolastico, a livello italiano e non solo, sono di natura più ampia e risultante non solo delle storture di una macchina poco efficiente, ma di un impianto culturale giunto, per così dire, a naturale esaurimento.

C’è di mezzo la vocazione dei sistemi scolastici e la loro genesi. «Per tutta la fase della seconda rivoluzione industriale e del Welfare state – scrive la professoressa Ribolzi –, i sistemi educativi di Stato, centralistici e omogenei, hanno svolto in modo eccellente i compiti loro assegnati, portando grandi masse verso l’alfabetizzazione. Ma dalla seconda metà del Novecento, in corrispondenza con l’avvio tumultuoso della terza rivoluzione industriale fondata sull’economia della conoscenza, i sistemi educativi costruiti in società profondamente diverse sono entrati in una crisi radicale e irreversibile». Va più oltre uno studioso di fama come Norberto Bottani, che nel suo contributo condensa i punti salienti del suo Requiem per la scuola (uscito un anno e mezzo fa per il Mulino) affermando tra l’altro che i «sistemi scolastici dovranno rinunciare allo sforzo di realizzare l’uguaglianza delle opportunità educative per tutti, elaborando il lutto per l’abbandono di uno degli obiettivi principali delle riforme scolastiche degli ultimi cinquant’anni. Altre preoccupazioni stanno già dominando il panorama scolastico, per esempio la competizione tra scuole che diventerà sempre più sfrenata, o le controversie sui metodi di valutazione e selezione».

Da più parti si evoca l’esempio delle charter school americane, che sulla carta condensano tutti i sogni di chi tifa per la fine del monopolio statale sull’istruzione. Il funzionamento in linea di principio è semplice: un soggetto privato (un gruppo di genitori o una associazione creata appositamente) si incarica della gestione di una scuola, mettendola in piedi ex novo o prendendone in gestione una che non funziona bene. Si incarica della selezione degli insegnanti, della compilazione dei programmi entro linee guida fissate dallo Stato. Lo Stato resta come giudice che non giudica l’ipotesi educativa della scuola ma controlla che risponda a standard di qualità, pena la perdita dei finanziamenti di cui gode (che comunque sono inferiori rispetto a quelli stanziati per le scuole pubbliche).

Il motivo per cui queste scuole sono ritenute interessanti (al netto dell’opposizione che incontrano in patria soprattutto tra i sindacati degli insegnanti) è la reale autonomia di cui godono. Non per niente proprio il caso delle charter school è guardato con favore nel pamphlet Liberiamo la scuola, con cui lo scorso anno Guido Tabellini e Andrea Ichino lanciavano un dibattito sulla scuola proprio nel segno dell’autonomia.
Un ultimo e fondamentale capitolo del dibattito sulle scuole paritarie all’interno del sistema scolastico italiano è quello del cosiddetto “costo standard” (che non va confuso con il costo medio per studente), ossia la quantità di risorse che serve per fornire una determinata quantità di servizi di istruzione a un certo studente.

Il costo standard. Una chimera?
Un numero importante, ma difficilissimo da calcolare perché il costo per la fornitura di servizi di istruzione dipende da un insieme di caratteristiche dello studente (l’eventuale disabilità, la cittadinanza, la condizione della famiglia di provenienza e così via). La tesi sostenuta da Tommaso Agasisti è che non si possa immaginare un numero che identifichi il costo standard per studente, ma che si debbano invece identificare dei “costi standard medi” per gruppi di studenti che condividono le medesime caratteristiche e che rappresentino almeno parzialmente la popolazione studentesca e il relativo impatto sui costi di “produzione” di istruzione. Da qui potrebbe prendere avvio una sperimentazione che miri all’ottimizzazione delle risorse e favorisca una competizione virtuosa tra scuole, in cui ogni istituto abbia un proprio budget, calcolato sulla base del costo standard così definito, e gestito in autonomia. «Se così utilizzato il costo standard potrebbe smettere di essere una chimera e diventare quello che promette di essere: uno strumento per il miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia del sistema scolastico del nostro paese». Fantascienza?

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