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Soldi dal Kenya per l’Italia. «Gli amici non sono un branco di spettatori inermi»

Una volta arrivati a zero contagi, cosa sarà cambiato nel cuore degli italiani? O la routine o la memoria. Lettera e risposta

Silvia Margherita De Fre - Emanuele Boffi
12/05/2020 - 3:00
Società
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Caro direttore, in questi mesi ho letto diversi articoli di giornalisti, filosofi, teologi, sacerdoti, anche della stampa estera, articoli in cui si dice che “da questo periodo abbiamo imparato a guardare le cose con una prospettiva diversa”, che “la vita non ci appartiene….”. Ma la mia domanda è questa: cambierà mai veramente l’uomo contemporaneo? Certo, l’uomo con un senso religioso, con una domanda sempre aperta, penso che qualcosa imparerà, ma l’uomo medio, quello che appende fuori dal balcone la scritta “andrà tutto bene”, o quello che c’era in giro per i parchi e navigli di Milano senza mascherina in questi giorni, l’uomo medio francese, tedesco, imparerà veramente qualcosa? Io auspicavo veramente che da questa situazione drammatica si risvegliasse un comune senso civico (se non religioso), che si aprisse una domanda. Ho invece la sensazione che la maggior parte degli italiani non aspetti altro di ritornare alle sane vecchie abitudini, alla solita frenesia che non ci fa pensare al senso delle cose. Una volta tornati a zero contagi, ad una seppur lenta ripresa economica, alle solite 2000 cose da fare, sarà cambiato qualcosa nel cuore del popolo italiano?
Silvia Margherita De Fre

Gentile Silvia, la risposta è che non lo so. E per fortuna non lo so, aggiungo, perché è una cosa che dipende dalla libertà di ognuno di noi, dunque non è programmabile, ma va sempre riconquistata.

Rispondendo in un’intervista a Le Figaro a un interrogativo simile al suo, il grande filosofo Rémi Brague ha detto che «viviamo in un mondo dove il virtuale ha sostituto il reale» e dunque di non avere «molta speranza per l’uomo contemporaneo».

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Tuttavia, ha aggiunto Brague, se intendiamo la «speranza nel senso cristiano del termine», essa

«può salvarci. È una delle tre virtù dette “teologali”, assieme alla fede e alla carità. Queste virtù hanno la peculiarità di non essere eccessive. Fatto che le distingue dalle altre virtù, dove l’eccesso dell’una ostacola l’esercizio delle altre. Per esempio, un’eccessiva prudenza può farci dimenticare il dovere di prestare soccorso al nostro prossimo. In compenso, non si può credere troppo, amare troppo, sperare troppo. Lo scopo ultimo di queste virtù è in realtà infinito: Dio che, con la purezza della carità, ci prepara “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo” (Prima lettera ai Corinzi)». 

Lei pone una questione interessante anche se io, a differenza sua, non distinguerei tra l’uomo medio e l’uomo religioso. L’uomo è sempre uomo, non so se “medio”, di sicuro è sempre “religioso” nel senso che sempre è costituito da un legame con qualcosa di più forte e grande di lui. Foss’anche un malvivente disadatto necrofilo come il Lester Ballard di Cormac McCarthy, resta un Figlio di Dio, che non può fare a meno di interrogare leopardianamente la Luna.

Il punto, quindi, credo, non è interrogarsi sul futuro (cambierà qualcosa) o autoconvincerci che sarà migliore (“andrà tutto bene”), ma capire, o almeno aprire un interrogativo, su quel che sta accadendo, su quel che abbiamo visto accadere (ricorda questa lettera dell’infermiera?). Infatti, anche quando saremo arrivati a “zero contagi”, quando anche avremo raggiunto il “rischio zero”, saremmo davvero al sicuro? Il rischio zero non esiste, e non solo per il Covid-19. Come dice Don Chisciotte sul letto di morte: «Io sono nato per vivere morendo». E come diceva don Luigi Giussani, «davanti agli uomini non lo so, ma davanti a Dio bisogna andare». Quindi l’unica domanda da farsi è la suprema domanda religiosa: «Perché sono qui?».

Non si risveglierà il comune senso civico se non si risveglierà il “comune senso religioso”. Come suggerito da Giancarlo Cesana, quel che dobbiamo fare non è dimenticare questo brutto periodo, ma fare esattamente il contrario: ricordare, ricordare tutto.

«Il senso religioso, se c’è, è vago e impotente. Cosa significa infatti l’“andrà tutto bene”, lasciato in mano a noi? Il sacrificio, il dolore e l’impegno a tornare a una normalità, in cui poter continuare a illuderci di essere padroni di noi stessi? Di fatto il proclama che tutto andrà bene aspira a una condizione in cui si possa dimenticare il disagio che stiamo vivendo, e così essere di nuovo felici; una specie di terapia di gruppo che ricerca la felicità cancellando i ricordi spiacevoli. Invece bisogna ricordare tutto, perché la memoria è il cardine della coscienza dell’io e del popolo, della sua capacità di affrontare problemi e difficoltà». 

Un’ultima cosa. “Fare memoria”, come suggerisce Cesana, è impossibile da soli. Non ci salveranno nemmeno le storie edificanti né i begli esempi né le testimonianze eroiche né il rimuginare personalmente (e retoricamente) su quanto sono stati emozionanti per noi. Servono luoghi in cui questa memoria sia vissuta. Se è abbonata a Tempi, nel prossimo numero potrà leggere la storia della colletta messa in atto dai poveri del Kenya per l’ospedale Sacco di Milano. Gente che vive ammassata in baracche, che non ha l’acqua corrente e si figuri internet, che è squassata periodicamente da flagelli come Aids, ebola e malaria, ha raccolto 35 mila euro per noi, per darci una mano. E l’ha fatto per gratitudine nei confronti dei benefattori italiani che, tramite Avsi, in questi anni l’ha aiutata e per ricordarci che «nessuno si salva da solo».

Ci ha raccontato Andrea Bianchessi, responsabile Avsi Kenya:

«Qui non esistono ammortizzatori sociali, se si incaglia la filiera agricola, già in sofferenza da un anno, o quella dei trasporti, se chiudi botteghe o blocchi gli ambulanti finisci a contare i cadaveri. L’Africa è il continente delle scelte tremende». Perché allora una raccolta fondi per un ospedale lombardo? «Perché – sorride Bianchessi – qui sappiamo davvero cosa significa che nessuno si salva da solo. Gli amici non sono un branco di spettatori inermi».

Quindi, per tornare alla sua domanda, non so dirle se al termine dell’emergenza sarà cambiato qualcosa nel cuore degli italiani. Ma in quello di questi amici keniani, sì, Silvia, qualcosa è già successo.

Foto Ansa

Tags: avsiCoronaviruskenyarémi brague
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