Soldati del Kenya contro Al Shabaab, il flagello della Somalia
Truppe keniote hanno invaso ieri la Somalia per dare la caccia ai guerrieri di Al Shabaab, l’organizzazione islamista armata organicamente alleata ad Al Qaeda che da cinque anni terrorizza la Somalia e tiene in ansia il mondo. La decisione da parte del Kenya è stata presa dopo che i fondamentalisti hanno rapito, nel campo profughi di Dadaab, Montserrat Serra Ridao e Blanca Thiebaut, due operatrici umanitarie che lavoravano con Medici senza frontiere.
«Il Kenya ha diritto di difendersi dai somali che fanno irruzione sul nostro territorio per sequestrare stranieri. Quindi abbiamo autorizzato le nostre truppe a varcare il confine e inseguire i rapitori», così il portavoce del governo di Nairobi, Alfred Mutua, ha annunciato l’ invasione della Somalia, che è avvenuta con una quarantina di blindati portatruppe e alcuni carri armati. Al Shabaab ha subito reagito: «Se non vi ritirate subito organizzeremo attentati nelle vostre città. I kenioti non conoscono la guerra, noi sì. La porteremo nelle loro città. Faremo saltare i loro grattacieli». Pubblichiamo l’articolo di Rodolfo Casadei “Il flagello della Somalia” che spiega chi sono i guerrieri di Al Shabaab, uscito sul numero 41 (2011) di Tempi.
A metà agosto sono stati cacciati a cannonate da Mogadiscio, che avevano occupato quasi totalmente più di due anni fa, con grande sollievo della popolazione. Saranno ricordati per aver proibito la consumazione delle sambusas, fritelle ripiene triangolari, perché la loro forma evocava la Trinità cristiana; per aver condannato alla flagellazione le donne scoperte a indossare reggiseni, capo di abbigliamento “ingannevole” e dunque anti-islamico; per aver chiuso i cinema e proibito la visione di partite di calcio alla tivù. Per vendetta hanno cominciato a piazzare in mezzo a rifiuti e detriti ordigni che hanno mutilato e ucciso le operatrici della nettezza urbana assoldate dal sindaco per cominciare a fare pulizia. Settimana scorsa sono riusciti a lanciare un camion bomba contro l’ingresso del ministero dell’Educazione, uccidendo un centinaio di studenti e loro familiari che attendevano i risultati di un concorso per borse di studio in Sudan e in Turchia. «Abbiamo colpito 150 giovani che volevano partire per il Sudan dove sarebbero stati addestrati allo spionaggio», ha comunicato un loro portavoce. Il territorio in cui sono insediati coincide con quello più colpito dalla carestia che dal luglio scorso affligge molte regioni del Corno d’Africa, eppure si ostinano a non lasciar entrare in queste aree gli aiuti della quasi totalità delle organizzazioni umanitarie internazionali, a cominciare da quelle che battono bandiera Onu. Dalla primavera scorsa hanno perso il controllo di varie località lungo le frontiere con l’Etiopia e con il Kenya, e la loro leadership è sempre più divisa fra quanti vorrebbero riaprire le porte agli aiuti internazionali e chi vuole proseguire nella linea intransigente.
Eppure le vite di milioni di somali e i due terzi della superficie della Somalia, paese che da vent’anni esiste solo sulle carte geografiche, sono ancora sotto il loro controllo. I guerrieri di Al Shabaab, l’organizzazione islamista armata somala organicamente alleata ad Al Qaeda che da cinque anni terrorizza la Somalia e tiene in ansia il mondo, continuano a esercitare un potere ragguardevole sulle fortune e sulle disgrazie di questo paese. Checché ne dica Wikipedia, nelle cui pagine in lingua inglese si può ancora leggere che nelle regioni sotto il loro controllo la produzione agricola ha conosciuto una forte ripresa negli ultimi anni perché sono state bloccate le importazioni, non è a motivo del buon governo che Al Shabaab continua a dominare la maggior parte della Somalia. A parte gli stravaganti divieti frutto di puro fanatismo e le punizioni crudeli inflitte indiscriminatamente, sono state proprio le scelte politico-economiche degli Shabaab a far precipitare la carestia in un territorio colpito dalla siccità.
L’aiuto dei contractors
Dai porti sotto il loro controllo salpano in continuazione carichi di carbone da legna per i paesi della Penisola arabica. Intere regioni sono state disboscate con l’occhio esclusivamente al profitto: dal solo porto di Chisimaio è stata esportata carbonella destinata a Oman, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti per un valore di 15 milioni di dollari. Quando non blocca l’accesso di Ong ed enti assistenziali Onu alla popolazione per ragioni politiche, ideologiche o semplicemente paranoiche (il timore che i somali vengano convertiti in massa al cristianesimo), Al Shabaab si rapporta agli aiuti internazionali con la stessa cupidigia in passato dimostrata dai “signori della guerra” che ha sconfitto: il suo ufficio per il coordinamento delle azioni umanitarie impone una tassa di registrazione alle Ong straniere oscillante fra i 4 mila e i 10 mila dollari, quindi esige un’imposta pari al 20 per cento di tutti i costi per la realizzazione di un progetto, si tratti dello scavo di un pozzo attrezzato o di un centro contro la malnutrizione. Alla fine, le entrate dai prelievi “fiscali” sulle Ong straniere equivarrebbero al 15-20 per cento di tutte le entrate degli Shabaab.
La ragione della resilienza degli estremisti in realtà è un’altra: è che nessuno ha la voglia o la possibilità di combatterli seriamente. A cacciarli dalla capitale non è stato il raccogliticcio esercito del Governo federale di transizione (Gft), ma i 9 mila soldati messi in campo da Uganda e Burundi con la benedizione dell’Unione Africana e della comunità internazionale tutta intera. I quali, a loro volta, sono riusciti nell’impresa al primo colpo (Al Shabaab è un osso duro, riunisce 7-9 mila armati che hanno vinto tutte le battaglie coi “signori della guerra” e con le truppe del Gft) solo grazie all’addestramento e al supporto – e forse anche qualcosa di più – di 40 mercenari (pardon: contractors) sudafricani, francesi e scandinavi al soldo di Bancroft Global Development, una compagnia americana di security.
Bancroft a sua volta è remunerata dai governi ugandese e burundese, che negli ultimi due anni hanno versato nei forzieri della ditta 7 milioni di dollari. Uganda e Burundi, per parte loro, ogni volta che pagano presentano fattura al Dipartimento di Stato Usa che provvede al rimborso. A esso il Pentagono ha recentemente aggiunto 45 milioni di dollari di armi e attrezzature destinate alle truppe di Amisom (nome della missione armata in Somalia sponsorizzata dall’Unione Africana).
Perché gli americani scelgono un percorso tanto tortuoso per contrastare i jihadisti? Perché il dibattito fra Pentagono, Dipartimento di Stato e Cia è giunto alla conclusione che attaccare direttamente Al Shabaab, magari inviando anche truppe Usa sul terreno, significherebbe fare un regalo in termini strategici agli estremisti, in quanto consentirebbe loro di presentarsi come la forza che difende la Somalia dall’imperialismo. Si ripeterebbe, cioè, il paradigma perdente del 1993, quando un cospicuo corpo di spedizione Usa in Somalia dovette ritirarsi senza risultati, sotto la pressione di una coalizione guidata dall’impresentabile signore della guerra Mohamed Farah Aidid, inopinatamente assurto al ruolo di difensore della patria da un’invasione straniera. In questi anni gli Usa ci sono andati piano anche con i raid aerei e i blitz, che hanno avuto per bersaglio non Al Shabaab come tale, ma i suoi esponenti direttamente legati ad Al Qaeda. È stato il caso di Saleh Ali Saleh Nabhan, di nazionalità kenyana, responsabile degli attentati alle ambasciate Usa a Nairobi e a Dar-Es-Salaam nel 1998 e dell’attentato anti-israeliano di Mombasa nel 2002 ma anche leader di Al Shabaab. Nabhan è stato ucciso insieme ad altri 8 terroristi nel settembre 2009, vittima di un attacco elitrasportato di Navy Seals nella Somalia meridionale.
L’importanza dei clan
Gli americani hanno usato per la prima volta – pare – i droni per un attacco contro una base di Al Shabaab solo il 29 giugno scorso. Il 17 giugno un portavoce dell’organizzazione aveva dichiarato che il gruppo aveva giurato fedeltà ad Ayman Al Zawahiri, il successore di Osama Bin Laden, e attendeva suoi ordini per agire. Una fonte militare Usa ha dichiarato al Washington Post a proposito dell’attacco del 29 giugno: «Recentemente apparivano imbaldanziti, di conseguenza abbiamo deciso di prevenire le loro attività. Stavano pianificando operazioni fuori dalla Somalia». La politica dell’amministrazione Obama dunque resta quella di sub-appaltare ad altri la lotta contro Al Shabaab, e di intervenire direttamente – ma solo con attacchi dall’aria – ed esclusivamente quando si profila la minaccia di azioni terroristiche globali da parte degli estremisti somali.
E le forze governative? Meglio cambiare argomento. I fatti dicono che i somali finora hanno combattuto solo quando i signori della guerra li hanno convinti che stavano battendosi per gli interessi del proprio clan. Manca una coscienza nazionale. «Bisognerebbe lavorare con la diaspora somala nel mondo, individuare gli elementi migliori, quelli che non pensano più in termini di clan ma di interesse nazionale», dice a Tempi monsignor Giorgio Bertin, amministratore apostolico di Mogadiscio. «La Somalia è ostaggio di quel 2-3 per cento di somali che mantengono l’instabilità per lucrare sugli aiuti internazionali».
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