Si dimette il prof che osò scherzare su Kamala Harris, frullato dal tritacarne dell’indignazione

Di Andrea Venanzoni
05 Marzo 2024
Il caso allarmante di Luigi Marco Bassani, sanzionato dalla Statale con l’accusa di sessismo per aver condiviso via social un meme sulla vice di Biden e abbandonato al suo destino dai colleghi
Luigi Marco Bassani
Luigi Marco Bassani

Luigi Marco Bassani, professore ordinario di Storia delle dottrine politiche, non sarà più un docente dell’Università Statale di Milano, ateneo in cui ha prestato onorato e apprezzato servizio per molti anni. È lui stesso a renderlo noto, attraverso una lunga e appassionata lettera aperta, dal sapore di confessione e anche di denuncia, apparsa sulle pagine di Libero.

Denuncia, sì. Perché Bassani passerà alla telematica Pegaso ma non per mero spirito di cambiamento; piuttosto sconta la rottura di quell’invisibile patto di fiducia e di affidamento che sempre intercorre tra un datore di lavoro e il suo lavoratore, e nel caso dell’università anche di quella complessa ragnatela di rapporti umani, accademici, dottrinali che sempre dovrebbero essere improntati alla massima correttezza e alla libertà.

Il meme e la sanzione di Bassani

Bassani è stato sanzionato dalla Statale, con un mese di sospensione dall’insegnamento e dallo stipendio. Una draconiana sanzione, confermata ad ora anche dal Tar e in attesa del giudizio di appello in Consiglio di Stato, originata da un mero meme: una vignetta che ironizzava su Kamala Harris e che Bassani, nel 2020, aveva osato postare sulla sua pagina Facebook. Giardinetto privato, quando fa comodo a certuni, ma piazza pubblica ed espressione quasi di punti di vista istituzionali, secondo gli stessi, laddove dovesse scorgersi l’opportunità di macinare le ossa di qualcuno a loro sgradito.

Accusato in tempo reale di sessismo, di maschilismo, ma colpevole in realtà di semplice sarcasmo, Bassani era stato presto frullato dal tritacarne della indignazione permanente che ormai come la nube della non conoscenza impesta il mondo tutto e la società: il tribunale degli indignati si era rigirato tra le mani, sui telefoni, nelle chat, quella vignetta, quello screenshot, con la bocca in muta espressione di feroce incredulità, nemmeno ci si fosse trovati al cospetto di una blasfema uccisione di Dio.

E dato che il tribunale degli indignati non può accontentarsi di replicare al sarcasmo con il sarcasmo, o di contestare i punti di vista o le idee con l’espressione di altre idee, si era subito avviata la segnalazione, che forse meglio dovrebbe dirsi delazione, agli organi competenti dell’ateneo e per il professore era scattata una surreale istruttoria disciplinare.

Quando la “rivoluzione” diventa burocrazia

Le rivoluzioni, avvertiva Nicolás Gómez Dávila, sono incubatrici di burocrati: e la “rivoluzione” del politicamente corretto, che come il proverbiale verme nella mela corrode da dentro anche il sistema accademico, riduce tutto a procedimento, procedura, provvedimento, processo. L’offeso reclama giustizia quasi divina, con il maglio d’acciaio della sanzione.

Come non ha mancato di rivelare, con dolente presa d’atto, lo stesso Bassani nella sua lettera, ormai i professori stessi sono stati ridotti al ruolo di meri passacarte, grigi burocrati che cercano nelle loro lezioni di schivare qualunque potenziale polemica, limando il linguaggio fin quasi a sterilizzarne la sostanza. Perché temono di poter incappare in simili polemiche, in problemi delicati. E finiscono così per relegarsi nelle metafisiche catacombe, al fioco luminare di torce. Niente più controversie, niente più esemplificazioni minate, nessuna complessità, non sia mai, tantomeno sarcasmo o ironia o battute, perché il tribunale inquisitorio della giustizia sociale non tollera, in primo luogo, proprio l’ironia.

Zero solidarietà per l’imputato

E per constatare quanta ragione abbia Bassani, anche a conferma della sua decisione di andarsene dall’ateneo milanese, che si immagina non essere stata semplice o adottata a cuor leggero, basta fermarsi a riflettere su quanto ormai gli individui si autocensurino: nella tremenda, continua, ciclica paura di poter essere linciati dall’orda ringhiante e sbavante degli indignati, ci priviamo spesso di dire una determinata cosa, di fare una battuta, oppure ci aggrovigliamo il cervello nella formulazione di una frase o di un pensiero che sia il più innocuo possibile per tutte le molteplici, crescenti, categorie che potrebbero risentirsi.

Inutile d’altronde in molti casi immolarsi, perché in determinati settori lo sfidare il consesso del politicamente corretto equivale al suicidio rituale. Basterebbe considerare quanta poca solidarietà abbia ricevuto Bassani, quanto scarsa indignazione abbia suscitato la suscettibilità urtata di alcuni, tradottasi in provvedimento disciplinare.

Processo senza difesa

La china ormai consolidatasi è preoccupante. Viviamo nel cuore di un mostruoso panopticon in cui la replicabilità della indignazione si rende virale: dal capitalismo della sorveglianza, affrescato da Shoshana Zuboff, siamo passati alla sorveglianza del politicamente corretto. Un occhio assoluto che stende la propria visuale sui social media, nel privato delle persone, sui libri, scrutina frasi, scandaglia scelte lessicali e sottopone poi a processo. In genere senza consentire difesa alcuna. Un consesso di fanatici convinti non solo di essere dalla parte di un giusto assoluto ma di agire nel nome universale degli oppressi e dei sofferenti.

In altre condizioni, la vicenda di Bassani avrebbe dovuto innescare una seria reazione. E non una reazione da parte di amici o simpatizzanti. Ha ragione Federico Punzi a evocare, sulle pagine di Atlantico, la necessità di una risposta non dissimile da quanto avvenuto negli Stati Uniti con i presidenti delle maggiori università, trasformatesi in campi di addestramento intellettuale di una jihad woke e dal sempre più accanito atteggiamento antioccidentale, antibianchi e antisemita, convocati e auditi in Parlamento e costretti poi da un robusto movimento di opinione alle dimissioni. Non per avere consentito certe espressioni, ma per averne vietate o punite altre.

Libertà a rischio

Scriveva Alberto Mingardi, ammettendo subito di nutrire scarse speranze, che sarebbe stato bello che la riflessione che Bassani ha affidato alle pagine di Libero fosse condivisa da persone che non la pensano come lui o che addirittura lo hanno in antipatia. Perché qui non è in questione semplicemente una persona. La quale può starci simpatica o antipatica, possiamo reputarla brillante o urticante. Ma questo importa poco. A importare, e molto, è il principio che si sta agglutinando e che sta divenendo totalizzante. Quello per cui tutto ciò che indigna determinate categorie, ormai issatesi sull’altare della incriticabilità o della impossibilità di sottoposizione a ironia o sberleffo, si eleva a dogma strutturato, sacralizzato, intangibile. Meritevole, quando violato, di punizione divina e feroce.

Siamo quasi al chestertoniano «spade verranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate», e bisognerà combattere, dimostrando levatura di carattere e volontà di passare attraverso il metafisico fuoco della battaglia intellettuale, semplicemente per fare il proprio mestiere di accademici. D’altronde che università mai potrà divenire, quale ricerca potrà partorire, uno spazio terrorizzato, vessato, concusso dalle legioni dei piagnucolanti che non riescono a capire che un motto di spirito è un motto di spirito e non una aggressione o un atto di violenza? Ad essere in questione è esattamente questo, la libertà di ricerca, di espressione, di insegnamento, perché si comincia sempre con lo stigmatizzare per via giuridica una battuta e si finisce poi per censurare opinioni, espressioni o risultati sgraditi di una data ricerca.

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