Se il Cenacolo diventasse un museo, dotta testimonianza di una civiltà defunta
Gerusalemme, novembre. La prima volta che ho visto la sala dell’Ultima Cena è stata nei primi anni Ottanta. Ricordo bene che eravamo io e un’amica nella stanza vuota, ad eccezione di un gatto che ci fissava. Tra le pareti nude, nel silenzio, la memoria di ciò che era accaduto lì colmava la stanza; bastava restare zitte per sentire i millenni e la grazia depositati dal tempo.
Questa mattina invece la sala è affollata. Turisti, molto più che pellegrini. Fanno crocchio attorno alla guida, e ascoltandone distratti le parole girano uno sguardo indifferente sui muri. Fotografano, più che guardare, o meglio si fanno fotografare, soddisfatti. Giapponesi, e comitive dall’Est per cui questo tiepido novembre è ancora estate: shorts, camicie hawaiane, berrettini. Nel viavai, un gruppo di francesi con il Vangelo nelle mani cerca di pregare.
Io me ne sto in un angolo a guardare, e un pensiero mi attraversa: e se i luoghi di Cristo, sempre più abbandonati dai cristiani – ormai una piccolissima minoranza a Gerusalemme – un giorno diventassero un museo? Accessibile, certo, gratis magari, ma museo: cioè dotta testimonianza di una civiltà defunta. Questo pensiero, nella mattina di sole, mi raggela.
Ecco perché dobbiamo andare, noi cristiani, in Terrasanta, e non da turisti ma da pellegrini. Perché la vita scaturita in quei luoghi resti viva e carnale: non splendido scenario, non quinta di teatro vuota – nel brusio poliglotta di quelli che si fanno i selfie.
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