Resistere all’eutanasia, curare gli inguaribili

Di Rodolfo Casadei
20 Agosto 2020
Il Meeting ospita le straordinarie testimonianze di Theo Boer, il più famoso pentito della buona morte olandese, Elvira Parravicini, promotrice della comfort care neonatale e Antonio Pesenti, responsabile della rete delle Rianimazioni lombarde

«Supply will create demand, la disponibilità creerà la domanda. Se in Italia verrà approvata una legge eutanasica, non dovete chiedervi se questo creerà un boom di richieste, ma quando ciò avverrà, e avverrà in poco tempo». Così parlò Theo Boer, il più famoso pentito dell’eutanasia olandese, alla specialissima edizione del Meeting di Rimini 2020. I lettori di Tempi conoscono questo docente di Etica della cura sanitaria dell’università teologica di Kampen, già membro della prima commissione nazionale per l’approvazione delle richieste di eutanasia, dopo che l’Olanda è diventata il primo paese al mondo ad averla legalizzata nel 2002.

PERCHÉ THEO BOER HA CHIUSO CON L’EUTANASIA

Convinto che fosse tollerabile (come la più importante Chiesa protestante calvinista del paese aveva deliberato già nel 1985) offrire la possibilità di porre fine alla vita di malati inguaribili e gravemente sofferenti su loro richiesta come soluzione eccezionale, ha partecipato per anni ai lavori della commissione a cui era stato invitato a partecipare. Ma i dati statistici che man mano si accumulavano – ogni cinque anni l’Olanda produce un report sull’andamento dell’eutanasia legale nel paese – gli hanno fatto cambiare idea. Così li ha riproposti per il pubblico virtuale del Meeting di Rimini: le richiesta di eutanasia in Olanda sono passate dalle 1.883 del 2002 alle 6.331 del 2019; mentre nei primi anni le richieste arrivavano per il 90 per cento da malati terminali di cancro, adesso la metà delle richieste riguarda altre situazioni e altre patologie. Che comprendono la demenza senile, malattie psichiatriche, cecità, autismo; crescono le richieste di eutanasia pediatrica, avanzate da medici e famiglie. «L’eutanasia non ha a che fare col dolore, ma con la disperazione e la mancanza di senso», commenta.

IN OLANDA, DOVE IMPERA LA “BUONA MORTE”

A suggerirgli questo giudizio è anche in questo caso un inquietante raffronto statistico. I sostenitori dell’eutanasia hanno spesso detto che la sua legalizzazione avrebbe umanizzato il fenomeno dei suicidi a cui ricorrevano molti malati gravemente sofferenti per risolvere il loro problema. I numeri dimostrano che le cose non stanno così: nel giro di dieci anni dall’approvazione della legge, le domande di eutanasia sono aumentate del 150 per cento, ma il numero dei suicidi non è diminuito, anzi è aumentato del 35 per cento nello stesso periodo mentre nei paesi confinanti, a cominciare dalla Germania, il tasso di suicidi diminuiva. «La legalizzazione del suicidio ha creato un clima psicologico per cui la morte procurata diventa una soluzione ai problemi personali, non solo a quelli di salute. Questa atmosfera colpisce negativamente i medici chiamati ad occuparsi delle richieste legali, il 70 per cento dichiara che la società non si rende conto dello stress emotivo a cui i medici sono sottoposti per richieste che vorrebbero disapprovare ma che devono accettare ai termini di legge. Nel tempo la percentuale di medici contrari a qualsiasi tipo di eutanasia è cresciuta dall’11 al 19 per cento». Il clima che si respira oggi in Olanda si comprende anche da fatti come l’introduzione di un progetto di legge che permette a chiunque abbia più di 75 anni di vita di dichiarare concluso il proprio percorso vitale e di fare domanda di eutanasia anche se non presenta gravi sofferenze da patologie fisiche o psichiche.

LE ORE CONTATE DEI BAMBINI DI ELVIRA PARRAVICINI

L’intervento di Boer ha arricchito l’incontro del Meeting dal titolo “La vita: un mistero”, che ha visto pure gli interventi di Antonio Pesenti, medico rianimatore del Policlinico di Milano che ha raccontato l’epopea dei rianimatori e intensivisti di tutta Italia nella loro lotta per salvare i malati di Covid – 19, e di Elvira Parravicini, altra conoscenza dei lettori di Tempi, neonatologa specializzata in “comfort care”, cioè in cure palliative per neonati destinati a lasciare molto presto questo mondo perché nati con patologie incompatibili con la vita. Parravicini ha spiegato ancora una volta da dove nasce l’approccio della sua clinica newyorkese, distante sia dall’accanimento terapeutico che dall’eutanasia o aborto terapeutico. «Sono due atteggiamenti che vogliono imporre alla realtà il nostro criterio, che vogliono decidere quel che sarebbe meglio senza guardare in faccia fino in fondo chi e cosa abbiamo davanti. Sono due posizioni che ignorano che la vita non è nostra, nemmeno quella del neonato incompatibile con la vita. Ma la sua vita ha un percorso naturale davanti, è una vita che si muove veloce verso due braccia d’amore che la attraggono». Seguire lo sviluppo naturale delle cose, seguire il movimento della vita del neonato, accompagnarlo con la cura. «Non si tratta di mettere in terapia intensiva un paziente che non sopravviverà, me di permettergli di vivere nel modo migliore le ore che deve vivere, stando in compagnia dei genitori e usufruendo di nutrizione e idratazione. Permettergli di godere l’abbraccio della sua famiglia, il che comporta che non debba soffrire la fame e la sete».

LA CURA DEGLI INGUARIBILI

Così il Neonatal Comfort Care Program della dottoressa Parravicini all’ospedale della Columbia University prevede una speciale attenzione alla capacità di suzione del bebè: «Succhiare per qualche tempo il seno materno molte volte è quanto spetta a un neonato che poco dopo lascerà la vita, è quel che gli spetta dal suo percorso vitale, e noi ci accertiamo che possa farlo. A volte succede che l’unica cosa che facciamo in tempo a offrire è il bagnetto che un’infermiera e la madre gli fanno, appena in tempo prima che ci lasci mentre noi stiamo dicendo cosa fare. È il piccolo paziente a dettarci la strada, siamo sempre richiamati a questo».

«Ho scelto di fare la neonatologa perché la nascita è il punto di apertura più grande alla realtà che ci sia (alla nascita l’essere umano ha davanti tutta la vita) ed è quello dove più si manifesta la condizione umana come condizione di dipendenza. Quando mi sono trasferita in America e ho incontrato più spesso situazioni estreme, ho imparato ad accogliere il dato di realtà dei neonati gravissimi come chiamata ad assecondare un percorso che non dipendeva da me. Il nostro non è un centro di cure palliative per neonati come ce ne sono tanti, noi facciamo corsi per medici e infermiere tutti gli anni perché vogliamo diffondere il nostro approccio. E troviamo tanti nella società che vedono le cose come noi: negli ultimi cinque anni abbiamo ricevuto 1,5 milioni di dollari di donazioni, che ci hanno permesso di fare importanti assunzioni di personale».

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