
«Questi referendum sul lavoro sono anacronistici, giusto astenersi»

Tra meno di un mese, l’8 e 9 giugno, si svolgeranno i quattro referendum popolari promossi dalla Cgil che riguardano il lavoro (l’abrogazione delle tutele previste dal Jobs Act, i licenziamenti nelle piccole aziende, i contratti a tempo e la sicurezza sui luoghi di lavoro), più un quinto sul dimezzamento dei tempi per ottenere la cittadinanza italiana.
I partiti di centrodestra sono quasi tutti per l’astensione (tranne Noi Moderati che è comunque per il No), a sinistra Avs e Pd sono per il Sì (anche se tra i dem non tutti la pensano come la segretaria Elly Schlein), così come i 5 stelle (che però lasciano libertà di coscienza sul quinto quesito); No ai primi quattro e Sì al quinto per Italia viva e Azione.
L’astensione di Fumarola (Cisl). Massagli: «Referendum anacronistico»

Molto significativo, domenica, l’intervento della segretaria generale della Cisl, Daniela Fumarola, che ha annunciato che non andrà a votare ai referendum di giugno. Posizione condivisa da Emmanuele Massagli, presidente della Fondazione Ezio Tarantelli, esperto di diritto del lavoro e docente presso l’Università Lumsa. «Fare oggi un referendum tutto incentrato sui licenziamenti è anacronistico», dice a Tempi. È anacronistico perché «i dati parlano chiaro: ci sono 24 milioni e 200 mila occupati, e c’è una crescita fortissima dei contratti a tempo indeterminato. Si parla del fenomeno delle “grandi dimissioni” non perché la gente molla tutto e si apre un chiringuito, ma perché chi si dimette trova un lavoro meglio retribuito altrove, e le aziende sono disposte a pagare di più pur di assumere».
Massagli spiega che «la Cgil ha presentato questa iniziativa referendaria anche a livello comunicativo come una misura contro il Jobs Act. In realtà c’è almeno un quesito che non c’entra proprio nulla con il Jobs Act, quello su salute e sicurezza, poi ce n’è un altro che c’entra solo marginalmente, quello sui licenziamenti nelle aziende piccole. La comunicazione è stata incentrata principalmente su due elementi: il superamento delle tutele crescenti e il ritorno all’articolo 18. Però non si tratta del ritorno all’articolo 18 originale dello Statuto dei lavoratori, ma all’articolo 18 così come modificato dalla legge Fornero. E la Cgil questo non lo specifica».

L’equivoco sull’articolo 18
L’articolo 18 originale dello Statuto, spiega l’esperto di diritto del lavoro, «è una norma scritta bene e molto sintetica. Quello della Fornero, invece, è tecnico e molto lungo, e prevede comunque l’indennità. La stessa Cgil, quando fu introdotta quella versione, la criticò dicendo che svuotava lo Statuto. Oggi invece propone un referendum per tornare proprio a quella norma che aveva contestato».
La differenza con le tutele crescenti, spiega Massagli, «è che lì l’indennità era automatica: si voleva togliere discrezionalità al giudice, in modo che l’azienda sapesse quanto avrebbe pagato in caso di causa persa. L’obiettivo non era rendere il licenziamento facile, ma prevedibile. Poi è intervenuta la Corte costituzionale, che ha lasciato in piedi le tutele crescenti, ma ha detto che il giudice deve poter valutare caso per caso anche l’indennità, togliendo di fatto l’automatismo. Quindi oggi la normativa, dopo l’intervento della Corte, è praticamente uguale a quella dell’articolo 18 della Fornero».
E parliamo sempre di licenziamenti economici, non discriminatori. «Se uno viene licenziato per motivi discriminatori, la reintegra è automatica, anche con il Jobs Act. Parliamo dei casi in cui il datore di lavoro dice di dover sopprimere un posto per motivi economici – ad esempio: lo sostituisco con l’Ai – ma poi il giudice ritiene che non sia vero o che non sia sufficiente. In quel caso, secondo il Jobs Act, non c’è reintegra, ma si paga un’indennità. Non c’è la reintegra, perché comunque non si è trattato di un licenziamento discriminatorio. Se c’è il caso di una donna incinta licenziata, ad esempio, c’è già la reintegra. Quindi il punto è solo sul licenziamento economico. E oggi, nel mercato del lavoro, quasi mai si arriva alla reintegra. Perché se sai che il datore di lavoro ti vuole mandare via, e puoi contrattare una cifra, la contratti». Soprattutto in un momento come quello attuale, in cui l’occupazione continua a crescere, e il problema delle imprese non è certo licenziare, ma riuscire a trovare le persone da assumere.
L’occupazione vola. Il problema oggi sono i salari, non i contratti a termine
È dedicato al Jobs Act anche il secondo quesito, con il quale si intende impedire la stipulazione di un contratto a termine acausale non superiore a 12 mesi. «Oggi in Italia la percentuale di contratti a termine è bassa: siamo attorno al 14 per cento, mentre durante il Jobs Act eravamo al 17 per cento. I contratti a tempo indeterminato crescono più di quelli a termine. È uno dei pochi aspetti in cui andiamo meglio del resto d’Europa. Quindi il tema della precarietà, per una volta, non è un nostro problema».

Potrebbe diventarlo, però. «Teoricamente, ma i dati dicono l’opposto: l’economia potrebbe rallentare, ma anche con la produzione industriale in calo da 23 mesi l’occupazione continua a crescere. Ed è un paradosso che anche gli economisti fanno fatica a spiegare. C’è anche un fattore demografico in gioco: il nostro mercato del lavoro oggi ha bisogno di lavoratori. Abbiamo 24,2 milioni di occupati, e nei prossimi 15-20 anni ne perderemo 5 milioni. È tutto da dimostrare che a breve avremo un problema di occupazione. Il vero problema, oggi, è quello salariale. Ma i quesiti referendari non c’entrano niente con questo».
Il quesito più delicato del referendum
Il quesito su salute e sicurezza è forse il più delicato per le imprese, spiega Massagli: «Il quesito propone un meccanismo sanzionatorio per cui l’appaltatore sarebbe responsabile anche dei rischi specifici dell’appaltante. Faccio un esempio: oggi se io appalto un’opera e non controllo se l’azienda è in regola, sono responsabile. Ma con il quesito, anche se ho fatto tutti i controlli, e uno si fa male per un errore dell’azienda appaltatrice (ad esempio: non ha controllato la pressione delle gomme del furgone), io divento comunque responsabile, anche se quel controllo non rientrava nelle mie competenze».
«Questo principio sanzionatorio rischia di deprimere tutto il settore degli appalti e dei servizi, perché è punitivo. Io spero che l’accordo tra la premier Meloni e i sindacati vada in un’altra direzione: una logica promozionale, basata su formazione, cultura della sicurezza, premi per le aziende virtuose, altrimenti non si riesce a contrastare il nesso dimostrato tra crescita dell’economia e crescita degli infortuni. È normale: se nessuno lavora, nessuno si fa male. Ma se l’unico modo che hai per ridurre gli infortuni è fermare l’economia, allora siamo fuori strada. E purtroppo è proprio l’approccio proposto dalla Cgil».
Un quesito marginale
Poi c’è il terzo quesito, ancora sui licenziamenti, ma nelle piccole imprese. Un quesito molto marginale, dice Massagli: «La norma interessa esclusivamente i lavoratori che operano nelle aziende al di sotto dei 15 dipendenti assunti fino al 6 marzo 2015, dato che a quelli assunti dal 7 marzo 2015 in poi si applica il decreto legislativo n. 23/2015 oggetto del primo quesito referendario. Insomma, è un quesito piuttosto laterale nella applicazione. Nella versione vigente della norma, nel caso in cui non ricorrano gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo è prevista la reintegrazione entro il termine di tre giorni o, in alternativa, il risarcimento del danno. Nella pratica, risulta largamente prevalente questa seconda soluzione».
Allo stato attuale, «il datore di lavoro è tenuto a risarcire al lavoratore il danno, versandogli un importo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. È il giudice a decidere l’importo dell’indennizzo, in relazione a diversi fattori menzionati dalla legge. Nella proposta della Cgil è prevista l’eliminazione del tetto massimo delle sei mensilità: il giudice potrebbe avere una maggiore libertà nella determinazione dell’indennità, quindi. Si tratta però soltanto di un’ipotesi: gli addetti ai lavori sono convinti che i giudici non adotterebbero parametri diversi di valutazione rispetto a quanto fatto finora, senza “spingere” le indennità verso l’alto. Inoltre, in contesti così piccoli, solitamente è lo stesso lavoratore che, una volta usuratasi la relazione con il responsabile, preferisce uscire dall’azienda, ricorrendo anche ad accordi extragiudiziali».
Massagli: «Questi referendum sono una risposta a una domanda che non ha posto nessuno»
Un referendum con quesiti su temi anacronistici e marginali. Ecco perché, conclude il presidente della Fondazione Tarantelli, «a mio parere la posizione più ragionevole è l’astensione: non vale neanche la pena di considerarli temi su cui esprimersi. E va ricordato che nel referendum l’astensione è prevista, non è venir meno a un “diritto-dovere” come alle elezioni politiche. Alle politiche, se non voti, decidono gli altri per te. Qui, se non si raggiunge il quorum, non decide nessuno. Questi referendum sono una risposta a una domanda che nessuno ha posto. L’azione della Cgil è destruens, e propone un ritorno al passato giocando una partita anche politica. Chi ha formulato i quesiti non ha colto i problemi reali. E se mi fai una domanda completamente fuori contesto, non ti rispondo nemmeno».
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!